Monumentale Don Carlo

Giuseppe Verdi l’aveva definita “opera mosaico” per la diversità di situazioni e per la complessità grand opéra, genere che non mirava alla concisione. Don Carlo, melodramma che il compositore di Busseto musicò su versi francesi per l’Opéra di Parigi nel 1867, fu soggetto a continue revisioni da parte di Verdi, ben cinque quelle accertate.
Il Teatro alla Scala sceglie di rimettere in cartellone questa monumentale opera nella versione cosiddetta di “Modena” del 1886, in cinque atti (libretto tradotto in italiano), che comprende le modifiche apportate dal compositore per l’edizione scaligera del 1884 e l’aggiunta dell’atto di Fontainebleau, ma senza le danze, scritte per la prima parigina. Una versione in cinque atti assente dal palcoscenico scaligero dal 1977, quando Claudio Abbado, regista Ronconi, la diresse per l’inaugurazione della Stagione. Lo spettacolo odierno è invece quello andato in scena al Festival di Salisburgo nel 2013, regia di Peter Stein e Ferdinand Wögerbauer, che firma le scene.
Anche in questo Don Carlo si percepisce la cifra stilistica del regista tedesco, che punta soprattutto a curare la recitazione dei cantanti. Se in precedenti esperienze si era apprezzato l’intento, lo spettacolo ideato da Stein sfocia qui in un minimalismo al limite del pauperismo che non rende giustizia della complessità e monumentalità dell’opera verdiana. Poche le suggestioni evocate, nulle le emozioni suscitate: Foresta di Fontainebleau suggerita da un tronco, chiostro di San Giusto accennato, imponenza di cartone per la scena di Nostra Signora di Atocha (con rutilanti quanto improbabili costumi e uno spaccato di cielo a specchio per l’auto-da-fè), imbarazzante la festa con i lampioncini nei giardini della Regina, un Escurial asfittico e asettico da piastrellata sala medica, una prigione linda e pulita alla fine di un biancheggiante scalone…Ma a suggerire le situazioni e gli stati d’animo, i fremiti e i coinvolgimenti drammatici della vicenda narrata ci pensa la musica di Verdi, che pur nella durata delle quasi cinque ore dello spettacolo, tiene viva la passione dell’ascoltatore. Merito di Direttore e interpreti.
Sul podio il Maestro Myung-Whun Chung, che dopo la bella prova nel recente Simon Boccanegra, si mostra interprete verdiano di assoluto interesse. E’ stata la sua una direzione sensibile e teatrale, sontuosa nei colori e raffinata nei dettagli, pregnante e drammatica nei giusti momenti, sempre attenta alle necessità del palcoscenico, traducendo la drammaticità delle vicende in incessante fluire musicale dall’elaborata trama. Ottima la resa dell’Orchestra scaligera e lo stesso dicasi per il Coro scaligero, che giganteggia per presenza. Don Carlo era Francesco Meli, atteso al debutto nel ruolo: bel timbro tenorile, voce calda e sonora, dotata di squillo, si espande con naturalezza; gli difetta un miglior uso delle mezze voci, spesso sbiancate. Meli sa essere un interprete convincente e partecipe, trovando per tutta la durata dell’opera accenti sinceri e accorati, sia nei duetti con Posa (soprattutto nella Prigione) sia in quelli amorosi con Elisabetta, soprattutto in quello finale. Credibile anche nelle situazioni drammatiche, con Filippo II ed Eboli.
Accanto a lui l’Elisabetta di Valois di Krassimira Stoyanova, bella voce lirica, dal canto disteso e senza sbavature se non nell’ingrossatura delle note centrali, svettando principalmente nel Tu che le vanità e nei duetti d’amore. La personalità non è spiccata, il fraseggio un po’ generico e non sempre incisivo, anche perché non è un vero soprano drammatico e il temperamento di questo personaggio non le si addice perfettamente. Filippo II è Ferruccio Furlanetto, veterano in questo ruolo. La voce conserva ancora una discreta ampiezza e un buono smalto, ma è l’interprete che emerge: sempre intenso e convincente nel fraseggio, imperioso, statuario in scena, campeggia sugli altri. La grande scena dell’Escurial lo trova inizialmente ingolato, ma subito dispiega la voce a rendere palpabile la solitudine e i turbamenti del monarca e le miserie dell’uomo.
Nella scena di Nostra Signora di Atocha mostra qualche difficoltà, spingendo la voce al limite del parlato, ma facendo valere le sue qualità d’attore e interprete. Il Marchese di Posa era il baritono Simone Piazzola, voce diventata un po’ sabbiosa, scarsa di squillo, ridottasi di volume e che fatica ad espandersi. Si disimpegna discretamente come interprete, trovando nell’accorato duetto della Prigione il suo momento migliore. La Principessa d’ Eboli aveva la voce di Beatrice Uria Monzon, che sostituiva l’indisposta Ekaterina Semenchuk. Bella presenza scenica, ma non altrettanta eleganza nel canto, abusando in acuti “aperti” sguaiati e volgari, uniti a una dizione italiana non sempre irreprensibile. Anonima nella Canzone del velo, trova migliore resa nel “Don fatale”.
Altra sostituzione per il Grande Inquisitore: Orlin Anastassov era rimpiazzato da Eric Halfvarson, voce scura e un po’ grezza; pur privo di finezze interpretative, il basso statunitense riesce a imprimere una sinistro imponenza e un fosco vigore al suo personaggio. Tebaldo mediocre e stridulo di Theresa Zisser, mentre Céline Mellon risultava una gradevole Voce dal cielo. Di non spiccata pregnanza vocale il Frate di Martin Summer. Festante accoglienza finale per tutta la compagnia e per Chung, dall’attento e caloroso pubblico (pur con vari vuoti fra platea e palchi). Recita del 22 gennaio, giorno compleanno del Direttore.
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