Brexit e il giorno di San Lanfranco

Il ventitré di giugno del 2016, giorno che la fede cattolica dedica alla devozione di San Lanfranco, vescovo di Pavia nel XII secolo, i cittadini del Regno Unito voteranno per decidere la permanenza o meno della Gran Bretagna nell’Unione Europea. Tutto lascia credere che il voto sarà favorevole all’uscita, a quella che viene chiamata Brexit. Uno snodo epocale, dopo il quale nulla sarà mai più come prima.
Non è detto, per la verità, che il saluto di Londra debba per forza avere conseguenze apocalittiche; non è detto che la sterlina cali a picco; non è detto che il Commonwealth regga all’impatto; non è detto che l’Ue segua davvero la linea enunciata da Schauble, secondo cui i sudditi di Sua Maestà si troveranno fuori anche dal mercato comune.
Non è detto, ma è possibile, forse addirittura probabile. E benché la maggior parte degli osservatori concordino sul fatto che i prezzi più pesanti saranno pagati dall’economia britannica, è sicuro che molti altri Paesi d’Europa, e l’Italia fra essi, ne subiranno gravi conseguenze.
Le astuzie del calendario fanno cadere questa data, come detto, giovedì 23 giugno (non chiedetemi come mai si voti di giovedì; si sa che gli Inglesi hanno le loro bizzarrie). Esattamente a settant’anni di distanza da quando venne firmato a Roma il protocollo italo-belga, con il quale il nostro Paese inviava in Belgio fino a cinquantamila lavoratori (in realtà saranno quasi quattordicimila in più) da calare in miniera nei cinque distretti carboniferi del territorio di Re Baldovino.
Un’intesa in grado di garantire a decine di migliaia di Italiani una via di fuga dalla fame e dalla miseria, e di permettere al Belgio (ma anche a noi) di approvvigionarsi di un po’ di quel carbone che era allora fonte energetica primaria. Un incontro tra vincitori e vinti, che in quell’estate del 1946 si somigliano molto. Sono due Paesi la cui gioventù è stata spietatamente falcidiata. I belgi hanno subito la brutale invasione nazista; l’Italia ha sparso il sangue dei suoi figli dalle nevi del Don alle sabbie d’Egitto al mare di Grecia.
Quell’estate del 1946 è avara di gioie: gli Italiani hanno appena scelto la Repubblica, e mandato in esilio il Re di maggio Umberto II di Savoia (che è peraltro sposato con Maria José del Belgio, in un intreccio di dinastie e di casate che perdura tuttora). Non si è ancora insediato il Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, e le sue funzioni sono ancora svolte dal premier Alcide De Gasperi, che guida un Governo di unità antifascista con Pietro Nenni vicepremier e Palmiro Togliatti Guardasigilli.
Dopo vent’anni di retorica farlocca, trombonismo e sogni di gloria fascista, l’Italia si è svegliata povera e nuda, fiaccata nel corpo e nell’anima, seduta in grembo alle sue macerie. Siamo da poco tornati ad avere una moneta nostra, dopo la terrificante inflazione delle am-lire. Il cibo, quel poco che c’è, viene acquistato a borsa nera o tramite tessera annonaria. La criminalità comune e politica commette ogni giorno crimini efferati.
Anche il calcio, sport nazionale per eccellenza, deve fare i conti con l’eredità della guerra. A parte il miracolo del Grande Torino, le altre squadre hanno notevole penuria di effettivi. Il Milan e l’Inter (che ha da poco smesso di chiamarsi Ambrosiana) vanno alla ricerca di calciatori nella felice Scandinavia, risparmiata dalla guerra. Arrivano Nordhal, Liedholm, Skoglund (si adegueranno anche Juventus e Napoli con Praest, i fratelli Hansen e Jeppson).
C’è miseria, fame, sgomento. Ma la piccola fiammella di speranza accesa dall’accordo con il Belgio fa tornare anche la voglia di vivere. Si paga a caro prezzo, beninteso: a parte le 262 anime inghiottite dal buco nero di Marcinelle (quasi tutti italiani, quasi tutti italiani del Sud), nessuno ha mai contato le silicosi, le pneumoconiosi e le antracosi, né è mai stato fatto un calcolo delle umiliazioni, dei cartelli davanti ai bar con la scritta “vietato agli Italiani”, degli innumerevoli episodi di discriminazione etnica.
Ma la minuscola luce accesa dal protocollo era destinata ad accrescersi. E quando quattro anni dopo il ministro francese Robert Schumann diede l’annuncio di quel patto di collaborazione tra Francia, Italia, Germania e Benelux che dava vita alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, aveva probabilmente ben presente la buona riuscita dell’accordo italo-belga.
È andata così, cari lettori: i figli di quegli spettri che si calavano nel pozzo buio e che venivano respinti come cani pieni di pulci nei locali pubblici, sono diventati professionisti, giudici, parlamentari, sindaci, presidenti del Consiglio. Qualcuno di loro è diventato famoso per un motivetto orecchiabile (come Rocco Granata, autore di “Marina”), qualche altro, come Marc Tarabella, per essere una delle figure più eminenti dell’Europarlamento.
È stato questo il cammino, il lungo cammino e l’immane fatica con cui sono state costruite opere grandi e degne, e il miracolo assoluto di sette decenni senza eserciti in armi in buona parte d’Europa. Lo so, molti blaterano sull’Unione Europea, confondendo i suoi palesi limiti ed i suoi numerosi errori con l’idea della sua inutilità. Lo so, si è troppo impegnati a lamentarsi per studiare, troppo vittimisti e viziati per osare, troppo puerili per ragionare. Ma nei ritagli di tempo, fra l’una e l’altra bufala che palleggiate e che vi palleggia sui social, fra l’uno e l’altro falso mito, provate a ricordarvi del giorno di San Lanfranco, di quel giorno in cui un sogno cominciò a prendere il volo. Il volo che in un altro giorno di San Lanfranco, tanto remoto dal primo, rischia di interrompersi.
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