Brilla Sylvia, di Lèo Delibes

Quando si parla di Delibes, oltre ad alcuni titoli operistici, salta subito in mente Coppelia: balletto capolavoro che fu un trionfo alla sua apparizione.
Nella galleria della danza c’è un altro titolo, di grande importanza, firmato da Delibes: Sylvia. Meritoriamente il Teatro alla Scala, proseguendo nel recupero del filone di balletti che negli ultimi decenni sono stati ripresi e riportati in scena, inaugura la stagione di danza con Sylvia. Una coproduzione con lo Staatsballett di Vienna, il cui direttore, Manuel Legris ha curato una nuova versione, scene e costumi di Luisa Spinatelli.
Sei anni soltanto separano Coppelia da Sylvia, eppure sono l’espressione di due epoche, di due mondi ormai lontani fra loro: Coppelia ben rappresenta lo spirito di una Parigi che, negli ultimi anni del Secondo Impero, brillava ancora per essere il riferimento in Europa, del divertimento e del piacere. Sylvia è invece specchio di una nazione, nel frattempo diventata Repubblica, nel cui seno è mutato il clima (dopo le guerre di cui la Francia aveva fatto esperienza) e vi si respira un’aria meno frivola.
La leggerezza e spensieratezza che caratterizzano Coppelia non sono più i sentimenti che guidano Sylvia, ma un’aulica stilizzazione mitologica. Per non parlare dello spessore musicale della partitura, tanto da far dire a qualcuno dei vecchi frequentatori di balletto, in opposizione alle nuove tendenze che urgevano di cambiamento, che in questo balletto si ascoltavano “echi wagneriani”! Sylvia nacque per il nuovo Théatre de l’Opéra di Parigi nell’aprile del 1876.
Fu innanzitutto un grande successo personale del compositore, la cui opera fu elogiata per sapienza sinfonica, anche se giudicata troppo raffinata perché sia adatta al palcoscenico… Ovvia reazione, se si pensa come la partitura costituisse un salto enorme per lo standard musicale per il balletto dell’epoca. Delibes anticipa quel farà Čajkovskij con le sue meravigliose creazioni. Tanto che lo stesso musicista russo, ascoltandola a Vienna rimase sconcertato dalla ricchezza melodica della partitura da fargli esclamare: “…l’avessi ascoltata prima, non avrei scritto il Lago dei cigni…”. Sylvia, dopo l’avvio non proprio fulminante conobbe momenti di notorietà fin alle soglie del ‘900, per poi cadere in disuso (distrutto l’allestimento da un incendio), senza mai raggiungere la popolarità di Coppelia.
Rita Sangalli, nei panni della protagonista, ebbe pur il suo trionfo. Ultima di una linea ininterrotta di ballerine italiane che, dal 1830, brillarono nel balletto dell’Opèra di Parigi, la Sangalli era caratterizzata da una vivacità e di un brio che facevano contrasto con lo stile corretto, ma un po’algido, delle francesi. E quasi tutte le “stelle della danza”che furoreggiavano in quel tempo, uscivano dalla scuola di balletto della Scala. Luis Mérante era Aminta oltre che coreografo, Orion fu un altro italiano, il mimo Francesco Magri mentre Eros fu la Sanlaville, en travesti.
Un ritorno di fiamma per Sylvia si ebbe con Carlotta Zambelli, nel 1919, nuova versione creata da Lèo Staats, poi il balletto fu ripreso da Serge Lifair nel 1941. Poco si è conservato del ricordo di questi antecedenti e non ci si stupisce se, rispetto ad altri titoli di danza che hanno avuto molte coreografie, Sylvia possa contare su poche esistenti: Ashton, Neumeier e Mark Morris. Da qui lo stimolo per Manuel Legris di dare nuova vita e vitalità a un balletto dalle forti potenzialità.
Il coreografo, come lascia intendere nel bel programma di sala, individua in Diana il personaggio chiave della storia, cui dedica un prologo iniziale per meglio far comprendere il filo logico della vicenda, basata su Aminta, favola mitologica di Torquato Tasso.
Lo spettacolo, completamente firmato dalla Spinatelli, è di fantasioso impatto mettendo in risalto, con costumi di perfetto gusto, la freschezza e l’energia rinchiusi nel balletto. Sylvia vede schierati molti artisti del Corpo di ballo della Scala e, come prima considerazione, va rilevata la vitalità e la convinta partecipazione con cui tutti si approcciano a questo nuovo titolo ballettistico.
Dominatrice della serata, Martina Arduino con brillantezza tecnica ma anche con fuoco, brio e leggerezza interpretativa ci offre una protagonista sfaccettata: lirica nel primo assolo con violino, charmante e intrigante nel finto concedersi a Orion nella grotta (bei tours en manège) e sensuale nel pezzo con le odalische.
Nel III atto deliziosa e fascinante, nel bel pas de deux su violino solo, piquante e amorosa nel resto. Ottimo partner l’Aminta di Claudio Coviello, calato nel personaggio con sentita partecipazione.
Da rilevare il bel ballon e la pulizia delle batterie nel III atto. Maria Celeste Losa era una Diana dal fiero portamento, accoppiata, in armonioso sincronismo, all’Endimione di Gabriele Corrado. Orione trova in Christian Fagetti il giusto fisique du rôle per il cattivo di turno, oltre a “portare” benissimo, fa valere la potenza dei suoi manège più che la rifinitura dei passi. A Eros presta la sua prestanza fisica Nicola Del Freo, ma nel III atto spicca per i salti, i begl’entrechat e tours.
Brava la Naiade di Vittoria Valerio, dai precisi fouettés; scatenato Fauno di Federico Fresi e bene i due contadini Antonella Albano Mattia Semperboni, in trio con il pastorello di Valerio Lunadei.
Corpo di ballo che sprizza energia: benissimo quello femminile, che trova spicco nel pezzo delle imperiose arciere cacciatrici. Coreografia rispettosa quanto armoniosa, ma non sempre allo stesso livello d’ispirazione: preferibile negli insiemi più che nei passi singoli.
Musica passionalmente diretta con gioiosa vitalità e attenzione al palcoscenico da Kevin Rhodes, salutato da una vera e propria ovazione alla ribalta finale. Calorosa accoglienza a tutti i ballerini, con particolari festeggiamenti per Arduino e Coviello.
Recita del 14 gennaio.
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