Carlo Cecchi, grande “bevitore”

La leggenda del santo bevitore dello scrittore austriaco (forse meglio dire austro-ungarico, poiché era nato agli estremi confini dell’impero) Joseph Roth, ha incontrato le fortune del cinema e del teatro. Il romanzo – considerato un piccolo gioiello della letteratura del ‘900 – è stato, infatti, adattato cinematograficamente dal regista Ermanno Olmi che nel 1988 fu insignito del Leone d’oro alla 45° Mostra internazionale d’arte di Venezia.
Non poteva essere quindi da meno la scena teatrale, quando Andrée Ruth Shammah, nella stagione 2006-07 allestì lo spettacolo incentrandolo sulla carismatica figura di Piero Mazzarella. Preziosa occasione oggi, quella di rivedere sempre sulle scene del Teatro Franco Parenti-Salone Pierlombardo uno degli ultimi grandi “mostri” della scena italiana, Carlo Cecchi. alle prese con il personaggio di Andreas Kartak, nell’acuta regia della Shammah nell’evocativo allestimento ideato da Gianmaurizio Fercioni. E’ il racconto in punta di penna e per nulla eclatante della discesa agli inferi di un vagabondo, alcolista ex minatore che, per una catena di “miracoli” innescata nella persona di uno sconosciuto benefattore, si arresta per un momento riportandolo a riconsiderarsi come persona.
Grazie a un prestito propiziato in nome di Santa Teresa di Lisieux – deus ex machina di questa sorta di riemersione dagli abissi – in cui si era passivamente lasciato scivolare, riprende a vivere relazioni umane con alcuni dei personaggi che avevano riempito il suo passato. Figure che in modo o nell’altro s’intromettono nel suo cammino, sviandolo dal proposito di restituzione della somma ricevuta in nome della santa. Joseph Roth mette poeticamente in luce, in maniera asciutta, la storia di quest’anima che si è spersa nelle occasioni che la vita le ha presentato.
Andreas Kartak racconta in un’analisi dolce-amara, priva di rimpianti o rimorsi, il suo mondo interiore, vivificato ora dall’imperativo morale di assolvere il suo dovere. Sulla scia di quest’azione interiore il protagonista fa tangibili i temi sottesi in filigrana e che permeano il racconto: riflessione sulla condizione di ogni uomo della propria identità e solitudine, innato senso di onore e dovere, l’onestà di fondo anche nella condizione più miseranda, del sentire religioso e della reazione a fronte della morte. La leggenda del santo bevitore caratterizzata da un’immediatezza narrativa di normale quotidianità, popolata da soggetti banali, cela quasi una dimensione metafisica, priva com’è di richiami specifici alla società; si fanno vivi, in dissolvenze che svaporano nell’alcool, rimandi lontani con profonda e fragile umanità.
Ruth Shammath ci avvolge in atmosfere sospese e irreali, in cui vera protagonista è la solitudine e l’incomunicabilità che regna tra i personaggi, evocati da Carlo Cecchi allo stesso tempo protagonista e narratore. Persone che intersecano momenti della loro vita, vicine, eppure mai realmente impegnate in una relazione, costantemente calate – come Andreas Kartak, nei propri pensieri; umanità nei contrasti di luce e ombra.
Lo spazio scenico disegnato da Gianmaurizio Fercioni suggerisce un bistrot che è visiva suggestione: la vetrina del bar tende a duplicarsi, inducendo lo spettatore a specchiarsi nella scena che si consuma sotto il suo sguardo, dove il gesto e l’azione rimangono intrappolati e immobili, con riflesso del protagonista, proiettato oltre il bancone. Pregnante scelta delle musiche, intelligente mix di melodie yiddish e russe, brani di Stravinskij, mescolati al jazz, e tipica musica parigina. Produzione del Teatro Parenti, adattamento e regia Andrée Ruth Shammah, con le suggestioni visive di Luca Scarzella e Vinicio Bordin, luci Marcello Jazzetti e costumi Barbara Petrecca. Carlo Cecchi, con superbo tono malinconicamente ironico e distaccato, da perfettamente corpo ai pensieri del racconto considerato la “cifra” del suo autore, e lo fa con una descrizione densa di pietas per l’inconsistente umanità, dei suoi desideri, delle sue traversie, nella sua lenta e inesorabile discesa nel nulla.
Ben ottantaquattro anni di alta scuola d’attore, un artigianato interpretativo che si traduce in ricca tavolozza di colori e sfumature, negli spessori di voce in un su e giù incredibile: le pause significanti, il gioco delle mani, l’intensa mobilità del viso e della bocca usate a fini espressivi. La naturalezza dell’interpretazione, giocata su toni intimi e a qualche pennellata sombre, semplici, mai smargiassi o d’effetto, assente ogni cenno di commiserazione o toni colpevolisti e scusanti. Fluire distaccato e pacato come di riflessioni ad alta voce, colloquio con se stesso, come se attorno non ci fosse nessuno perché la vicenda si svolge tutta all’interno di se. Si esibisce in piccoli passi di danza, teneri e struggenti, quasi altra voce narrante. Significativo ”raddoppio” di un passo del romanzo, con l’attrice in scena, a dar grado di valentia attinto dall’attore fiorentino. Caloroso e convinto il tributo finale decretato a Cecchi. Accanto a lui Roberta Rovelli e Giovanni Lucini.
Al Teatro Franco Parenti fino al 19 febbraio, prorogato a grande richiesta.
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