Chiariamoci: diritto allo studio non è diritto al titolo di studio

Un segno di civiltà, e di lungimiranza, di qualsiasi Paese è il peso che viene dato all’istruzione.
Se è veramente così, allora possiamo con fierezza considerarci il buco del culo del mondo civilizzato. Anzi, non consideriamoci più civilizzati e morta lì.
Le recenti battaglie del governo Renzi sulla scuola sono state battaglie sudatissime, truci. E tutte incentrate su un unico punto: le assunzioni di personale docente. In sostanza la nuova riforma della squola (la q è voluta, non pensiate male, ma secondo me rende bene l’idea) è stato un cadreghinificio, che poltronificio era eccessivo.
L’elemento mancante, drammaticamente mancante, è stata una bella riflessione sui programmi. In teoria, quanti professori ti servono, e di quali materie, è un di cui. Prima devo capire che cosa insegnare a questi ragazzi, che programmi approvare e (rivoluzione!), a quanti.
Perché forse è il caso di dirselo chiaro: diritto allo studio non è diritto al titolo di studio. E’ fare il bene del ragazzo in primis, ma di tutto il nostro paese, piantarla di formare ragionieri che non sanno nulla di partita doppia, latinisti con seri problemi con la terza declinazione, e Dio non voglia, geometri che non hanno ben chiaro il concetto di muro portante.
Così come siamo tutti stufi di maturati al liceo linguistico con un inglese da Mister Flanagan di Aldo Giovanni e Giacomo, che per l’appunto con quel personaggio volevano far ridere, non prendere 100/100 ad una maturità.
Siamo costantemente in fondo a qualsiasi classifica sulla preparazione dei ragazzi e il discrimine non credo sia quanti insegnanti li seguono, ma quanto questi insegnanti siano preparati, quanto le scuole possano offrire laboratori, specie per le lingue straniere ed informatica. Quanto, in buona sostanza, questi ragazzi siano in grado di competere in un mercato del lavoro che è oramai realmente globale.
Se pensiamo all’istruzione superiore col groppo in gola, peggio ancora la situazione delle università. Sbattuti fuori a calci da qualsiasi classifica sui migliori atenei al mondo, e non parliamo solo delle università statali, i nostri ragazzi affrontano un percorso di studi massacrante, più lungo che all’estero. Più costoso che all’estero, meno seguito che all’estero e soprattutto completamente slegato dal mondo del lavoro. Pochissime università offrono stage in azienda e solo per alcune facoltà, quelle in campo più tecnico scientifico. Come se un laureato in lettere fosse, by definition, un inabile all’occupazione.
Ma soprattutto questi ragazzi escono senza una vera preparazione. Hanno semplicemente impiegato del tempo, pagato delle tasse (tra le più alte d’Europa caso strano), ricevuto meno dei loro colleghi europei e poi vengono buttati nel mondo del lavoro a far vedere quanto valgono, senza neppure sapere cosa possono fare.
Il laureato italiano una volta se lo litigavano le aziende migliori del mondo (per dire, il numero due di Amazon da più di 10 anni è un brillante bocconiano approdato alla corte di Jeff Bezos quando era, in fondo, solo il numero uno di Apple in Europa).
Oggi i nostri ragazzi all’estero vanno a fare i camerieri ed i pizzaioli. Perchè l’Italia da un paio di secoli esporta giusto pizza, arte, letteratura e scienze sono dei secoli che ci vedono dietro. E d’altra parte i laureati italiani non è che qui possano sperare in molto di più. Stipendi da fame, precarietà e soprattutto anni di fotocopie e commissioni per il capo (o peggio, per la moglie ed i figli del capo).
Colpa loro? Forse qualche volta. Ma colpa soprattutto di un sistema così arroccato su se stesso da non capire che un avvocato deve sapere anche cosa vuol dire condurre una causa e stare in un tribunale, oltre che aver imparato a memoria articoli di codici. Un commercialista deve uscire dall’università sapendo compilare una dichiarazione dei redditi ed un architetto deve saper tirare su, se non già uno stadio perlomeno una onesta villetta a due piani.
Per non parlare di ingegneri e medici.
Ma noi no, siamo ancora convinti che il sapere sia teoria, la pratica è per i poveri di spirito, per le classi plebee.
Noi vogliamo formare dirigenti che saranno fortunati a fare gli spazzini.
Ma non importa. Certamente non ai baroni dell’accademia.
Il tutto poi si riflette chiaramente anche sulla società e sulla classe politica. Siamo un paese di destinati a tirare a campare. E’ chiaro che poi ammiriamo chi questo sistema lo fotte, e chi se ne frega se fottendo il sistema, il servizietto lo ha fatto pure a noi.
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