David Bowie a Milano, quella sera del 1987…

David Bowie se ne va. Non muore veramente, ma si consegna a quell’immortalità che aveva già conquistato attraverso le sue opere e la sua vita, sempre a cavallo e oltre le mode, che ha preceduto e anzi condotto per mano.
Non si può raccontare un uomo, figurarsi un genio, uno dei portabandiera della musica e della cultura del ‘900, una cultura intrinsecamente ‘europea’, capace di unirsi e aggrovigliarsi con immagini e note provenienti anche da altri continenti, ma senza rinnegare mai i propri legami con una filosofia profondamente inglese e britannica.
Bowie è stato un personaggio letterario, un Oscar Wilde post litteram, un Duca Bianco nel vero senso della parola, un Lawrence d’Arabia lanciato nel deserto di un’Europa sempre più contratta e arida, priva di stimoli, immagini, risorse.
Musica di ogni genere la sua, dal glam alla new-wave, dal soul al pop fino al rock più duro, un melange infinito di stili, e soprattutto Bowie è stato padre putativo e ispiratore di tantissimi artisti e gruppi che, in parte o completamente, ne hanno copiato stile e musica: John Foxx e gli Ultravox, Jim Kerr e i Simple Minds, David Sylvian e i Japan, perfino Simon Le Bon e i primi Duran Duran e tanti altri, compresa quella Lady Gaga che al trasformismo bowiano ha dedicato parte del suo discutibile senso estetico.
L’età di chi scrive mi consente di uscire dalla ‘terza persona’ tipica del giornalista e raccontare la mia esperienza personale: il 10 giugno 1987, in uno stadio San Siro esaurito, fui testimone dagli spalti del suo “Glass Spider Tour”, con la curiosa contemporanea (e obbligo di scelta lacerante) del concerto di un altro grande personaggio della musica, Peter Gabriel, che a poche centinaia di metri, in quegli stessi minuti, riempiva l’allora PalaTrussardi con il “No Way Out Tour”.
L’omaggio a Bowie era un atto dovuto, per chi come me in quegli anni era stato completamente rapito dalla musica new-wave, dove la classica line-up tipica del rock (voce, chitarra, basso e batteria) veniva arricchita, in misura sempre maggiore, dalla presenza dei sintetizzatori o, in certi casi, perfino di violini elettrici e fiati, dove il presente e il futuro si univano con la musica classica.
Anche chi fosse cresciuto a pane e metallo (inteso in senso musicale) poteva così accostarsi, grazie a Bowie, a una musica ‘colta’, dove le collaborazioni con Brian Eno e Karl Heinz Stockausen permettevano di guardare oltre, consentivano di aprire una finestra su un mondo fino a quel momento sconosciuto, su una cultura di cui essere orgogliosi, un ‘underground’ in cui fare crescere idee e immagini che, grazie allo stile di Bowie, traevano nuova linfa e nobiltà.
Bowie era un vero compendio artistico: in lui vivevano e si compenetravano musica, pittura, fotografia, cinema e teatro, un Apollo personificato anche nei suoi tratti e modi belli e gentili, a cui però sapeva aggiungere il gusto della trasgressione vera e sincera, vissuta in prima persona, a cominciare dalla propria androginia e bisessualità dichiarata in doppio petto.
Un segno dei tempi e un confronto desolante, se paragonato con la realtà odierna, fatta di artisti presunti lanciati da reality show, musica parlata senza più melodia né ritmo, un impoverimento artistico andato di pari passo con l’abbrutimento culturale vissuto dalla società italiana ed europea, in un secolo, il Ventunesimo, che probabilmente non merita più né il suo stile né la sua classe.
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