Donizetti e Mayr, insieme al Teatro Sociale

Dopo la gustosa rappresentazione de Il Borgomastro di Saardam, il Festival Donizetti Opera di Bergamo dà il via, con Pigmalione, all’ambizioso progetto #Donizetti200 che celebra i due secoli delle composizioni del compositore bergamasco, da quest’anno sino al 2044. Lo fa accostando alla breve cantata scenica, prima composizione del musicista bergamasco, la farsa in un atto di Johann Simon Mayr, Che Originali!, che ebbe la prima rappresentazione al Teatro San Benedetto il 18 Ottobre 1798. Mayr, come si sa, fu Maestro di Cappella della Basilica S. Maria Maggiore a Bergamo, carica che tenne fino alla morte nonostante offerte molto più importanti. E fondatore di quelle Lezioni caritatevoli di musica, da cui uscirà l’allievo più importante: Gaetano Donizetti. Contemporaneo di Haydn, di Beethoven e di Rossini, Mayr fu uno dei compositori più famosi d?opera dell’inizio del XIX secolo, conferendogli un nuovo carattere. Un esempio ne è la farsa Che Originali! dove, grazie anche alla leggerezza e spiritosa versificazione del librettista Rossi, il passato viene messo alla berlina (povero Metastasio!) e il nuovo modo brillante e libero di scrivere in musica, sono il portato della ventata di libertà nata dalla rivoluzione francese. La farsa è una pungente satira sulla consapevolezza culturale di certa nobiltà (qui il barone Don Febeo), che scambia un maniacale dilettantismo per l’arte come vero genio musicale. Farsa fortunatissima già al suo apparire, con frequenti repliche con titoli svariati negli anni successivi (Milano, Genova, Napoli, Firenze, Vienna e Parigi, dove la celebre Catalani si fece un nome con il personaggio di Aristea), ebbe molte rappresentazioni anche al principio del ‘900, a dimostrazione di quanto fosse gradita. Con la farsa Che Originali! Mayr e Gaetano Rossi ottennero un successo che già allora sopravvisse all’ evoluzione del gusto musicale del tempo, creando un capolavoro nel suo genere. Di Che Originali! non esiste un autografo e il Festival la propone nella trascrizione di Maria Chiara Bertieri che ricostruisce la perduta partitura aderendo strettamente al libretto originale della prima, salvo l’aggiunta di un ‘numero’ sostitutivo, prassi che al tempo si chiamava “aria di baule”. Gaetano Donizetti compose Pigmalione nel 1816, definendola “scena lirica in un atto”, quando studiava con Padre Mattei a Bologna.
E’ l’unico esempio di libretto su soggetto mitologico, probabilmente composto per onorare la morte del tenore Babbini, rinomato cantante attore celebre per la declamazione. Pigmalione, a quanto risulti, non vide una rappresentazione se non in tempi moderni, esattamente il 13 ottobre 1960 al Teatro Donizetti di Bergamo, nell’ambito del Teatro delle novità. La nuova produzione della Fondazione Donizetti, per la regia di Roberto Catalano, si avvaleva del medesimo impianto scenico per entrambe le opere, ideato da Emanuele Sinisi. Una messinscena moderna che strizza l’occhio all’arte contemporanea con i “tagli” alla Lucio Fontana che giganteggiano nella farsa di Mayr (non disdegnando citazioni di Milos Forman, Amadeus), che trova però maggior pregnanza nell’ambientazione claustrofobica, più mentale e virtuale che realmente vissuta, in Pigmalione. La regia per Che originali, troppo frenetica, assume un ritmo da avanspettacolo e da rivista più che squisitamente satirica o semplicemente ironica. Più centrata in Pigmalione, dove forma un intelligente unicum con l’asfissiante contenitore. I piacevoli costumi, non tutti ispirati, erano di Ilaria Aiemme. L’Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala era diretta da Gianluca Capuano, che fin dalla scintillante sinfonia mostra una felice aderenza al clima musicale del primo ottocento, unendo la capacità di buon concertatore. Nella compagnia di canto, ben amalgamata, spiccava il veterano Bruno De Simone, un Don Febeo che sprizza verace vis comica, su una credibile ed energica interpretazione; sempre encomiabile per linea di canto, sa essere saporitissimo nel declamato. Aristea e Carolino, tipica coppia amorosa dell’opera del XVIII secolo, erano rispettivamente Chiara Amarù e Leonardo Cortellazzi. La prima possiede una bella voce rotonda e omogenea, valorizzata da una tecnica di canto sicura nello scioglimento delle colorature, nitide e sempre a voce piena. Attrice spiritosa, tiene la scena in maniera gustosa, giocando con il personaggio con mille ironiche sfaccettature. Leonardo Cortellazzi dal piacevole timbro, sfoggia acuti penetranti ma non è altrettanto fluido nei passi vocalizzati, pur sapendo essere un divertente interprete. Biscroma in voce quello di Omar Montanari, dalla linea di canto omogenea e interprete ironico , sapido nell’aria del “ci s’intende”. Celestina era Gioia Crepaldi, dal bel personale e dalla voce chiara, con acuti un po’asprigni. A Donna Rosina , Mayr riserva una bella aria, non già da ipocondriaca, come invece emerge nel recitativo e nell’ensemble, ma di ragazza capace di sentimenti d’ amore. Angela Nisi riesce solo in parte a rendere le sfaccettature del personaggio. Carluccio di lusso quello di Pietro Di Bianco.
In Pigmalione Antonino Siragusa, nelle parti del protagonista, fa valere la sua esperienza con un gioco di chiaro scuri, ma che non bastano a ingenerare un senso di incompletezza nell’interpretazione, generica e dalle poche sfumature. La voce inoltre gioca tutta sul mezzo-forte, spinta oltre necessità: la buona acustica della sala non necessita tanto impeto. La Galatea di Aya Wakizono, non avendo che poche linee musicali, si segnala soprattutto per le pose ieratiche e il bel vestito. Calorosi applausi per tutti, da un pubblico che non arrivava a riempire la sala del Teatro Sociale.
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