Elektra di Richard Strauss

Elektra di Richard Strauss fu lo spettacolo d’addio di Patrick Chéreau. L’artista francese, scomparso nel 2013, firmava la regia (ripresa oggi da Peter Mc Clintock) di una coproduzione che vedeva coinvolti il Festival d’Aix en Provence e i teatri del Metropolitan di New York, il Finnish National Opera di Helsinki, la Staatsoper di Berlino e il Liceu di Barcellona.
Alla Scala andò in scena nella Stagione 2013/14 e grande fu l’impatto sul pubblico. Spettacolo di concezione minimalista, dove ogni gesto risulta essenziale e pregnante, è scandito dalla scena fissa di Richard Peduzzi che non si smentisce nell’allestire costruzioni in cemento o mattoni, dai caratterizzanti costumi di Caroline De Vivaise (tra il radical-chic e il mendicante) avvalendosi della geniale illuminazione di Dominique Bruguière. Il testo originale di Sofocle è seguito quasi letteralmente dal librettista Hugo von Hofmannsthal, su cui s’innesta la soggiogante musica di Richard Strauss operando sull’ascoltatore una fascinazione indescrivibile.
Elektra inchioda alla poltrona gli spettatori in quello che è il lavoro più traumatico, drammaturgicamente e musicalmente parlando, della storia del melodramma. Soggiogati in una tensione emotiva che non conoscerà pause per la durata dell’intera partitura che si scioglierà solo nel drammatico e catartico finale, in cui Elettra danza ebbra, stramazzando a terra morta.
Il regista Chéreau spoglia l’azione tragica di tutto il super-umano e titanico, rinserrando la narrazione in un alveo discorsivo, quasi un dramma borghese. Elettra non si aggira più nel claustrofobico cortile della reggia di Micene, con il furore da menade, non più spietata larva divorata dall’odio ma inflessibile e determinata esecutrice.
Lacerante lo sbalzo dato all’incontro con Clitennestra: entrambe si abbandonano a struggenti gesti di desiderio di recuperare un affetto perduto. Con una drammaturgia molto analitica, Chéreau apre uno spiraglio di comprensione fra madre, non più amante sanguinaria, e figlia consumata dall’odio cieco e nevrosi di vendetta. Commovente l’arrivo di Oreste, sotto mentite spoglie, e l’incontro con Elettra: inizialmente non lo riconosce, mentre i “cani” (il regista usa qui i servi), sì; un parallelo con il ritorno a casa di Ulisse. L’azione, sospesa in indugi umani, prende una deriva drammatica: la fatale vendetta è prossima.
Elettra abbandona ogni sentimento per sfrenarsi in una gioia feroce, a lungo repressa. Concezione che si ritrova nell’impostazione della protagonista, Ricarda Merbeth, un’ Elektra intensa e generosa che gioca tutta la drammaticità e l’umanità del personaggio su un incisivo fraseggio e una vocalità tagliente, nonostante iniziali oscillazioni di voce e durezza negli estremi acuti.
Fascinosa come sempre Waltraud Meier, che gestisce con intelligenza un patrimonio vocale ormai depauperato, delineando una Klytämnestra dimessa e spaventata, tenera in sentimenti materni non corrisposti e desiderosa di pace, che si stenta a credere un’assassina. Più personaggio borghese intimista, che regina toccata da lacerazioni violente, velata di rimpianti da cui non traspaiono le insicurezze e il terrore per l’avvenire.
Brava Regine Hangler, Chrysothemis sensuale e logorata da rimpianti, ma non pavida e sottomessa. Efficace Michael Volle nei panni di Oreste, imponente e razionale ma partecipe nel commovente incontro con Elektra.
Efficace Egisto di Roberto Saccà, ben caratterizzato; omogeneo il gruppo delle ancelle.
Al direttore Markus Stenz l’impegnativo compito di sostituire Christoph von Dohnányi, ammalatosi dopo la prima recita. Riesce nel compito di mantenere alta la tensione della partitura mettendo in rilievo la lussureggiante scrittura; un’interpretazione più “lirica” che espressionista.
Orchestra della Scala in gran spolvero. Pubblico molto attento e generoso di applausi.
Recita del 14 novembre.
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