Falstaff sorprende ma non emoziona

Falstaff, ultima opera scritta dal compositore bussetano, è una commedia lirica in tre atti andata in scena per la prima volta proprio alla Scala il 9 febbraio 1893. Il libretto di Arrigo Boito, tratto da Le allegre comari di Windsor e dalle due parti di Enrico IV di William Shakespeare, è la felicissima raffigurazione del tipo e del carattere di un famoso capitano inglese della guerra dei “cento anni”, corpulento e rubicondo, vanitoso e sbruffone, codardo e ubriacone, e che sa essere un donnaiolo impenitente, illudendosi di poter fare delle conquiste nonostante il suo fisico e la sua mal dissimulata bassezza di uomo vizioso, privo di morale e dignità. Come Shakespeare, così anche Boito ne fa un personaggio caricaturale, tanto comico nei suoi atteggiamenti e nelle sue avventure, da suscitare riso e disprezzo insieme.
Falstaff è indubbiamente una delle opere più belle che siano state scritte: l’ottuagenario maestro vi lavorò per ben quattro anni, illuminando la sua ultima opera di un sorriso e di un’allegria bonaria, contemplando saggiamente la vanità di tutte le azioni umane nonché della vita stessa. In Falstaff Giuseppe Verdi fornisce una prova di perfetta maestria tecnica, di originale fantasia musicale, compiendo il miracolo di scrivere qualcosa di veramente innovativo, espressione di un’originale modernità. Il trionfo con cui il pubblico accolse questo capolavoro, fu soprattutto un omaggio al nome ed agli anni del venerato musicista: lui stesso si rese conto che l’ulteriore passo in avanti compiuto dalla sua creatività, non era stato compreso appieno. E forse, ancora per buona parte del pubblico odierno, Falstaff assume i connotati di un’opera solamente buffonesca. Di diverso avviso il regista Damiano Michieletto, che nella presentazione dello spettacolo, andato in scena per la prima al Festival di Salisburgo, sostiene: …nell’opera emergono continuamente i temi della malinconia, della vecchiaia e della morte. Il passo è breve per ambientare l’opera nella Casa di riposo per musicisti Giuseppe Verdi, ultima grande “opera” fortemente voluta dal compositore busseranno. Falstaff diventa allora un cantante a riposo che sogna e ricorda il passato in cui interpretava il protagonista. Attorno a lui la vicenda si svolge su due livelli, quello reale della prevedibile quotidianità della vita di una casa per anziani e quello “fantastico” dei personaggi dell’opera verdiana. Due livelli che non si intersecano e fanno fatica a conciliarsi fra loro: Falstaff , checché ne pensi il regista, non è affatto opera di “malinconia, vecchiaia e morte”, ma un inno alla vita, alla gioia e all’argutezza delle allegre comari di Windsor che usano l’astuzia per ridicolizzare la tronfiaggine degli uomini e Giuseppe Verdi fa sprizzare questi sentimenti da tutta la partitura. Lo spettacolo, a scena fissa, è l’autentico salone di “Casa Verdi”, che riassume tutte le ambientazioni.
Qui, eternamente spaparanzato su un divano, Falstaff agisce ed evoca la vicenda trascorsa. Il vulcanico regista non dà un attimo di tregua ai personaggi: tutto si traduce in una frenesia di movimento, il più delle volte gratuita, impedendo al cantante (e al pubblico) la concentrazione sul canto. Un’invenzione ne segue dappresso un’altra, un caleidoscopio di trovate scoppiettanti elettrizza lo spettatore; ma dopo tanta agitazione fallisce il coup de théâtre del finale del II atto, quasi statico, e in parte anche quello del finale III, alla “quercia di Herne. Irretiti in una girandola ininterrotta di situazioni sceniche ci si accorge del sacrificio fatto di ogni chiaroscuro, della debole emozione suscitata dai due giovani amanti, della svanita magia notturna del finale del III atto, dell’annacquata malinconia e presa d’atto della condizione reale di Falstaff. Protagonista ancora una volta Ambrogio Maestri, un Falstaff nel pieno della maturità (alla Scala lo si ascoltò per la prima volta nel 2001), mostra una sicurezza scenica disinvolta: rifinito, sornione e godereccio con screziature di protervia e sicumera. Lui è Falstaff. Vocalmente la voce mostra qualche fibrosità ed usura; anche il fraseggio dell’interprete, nella vorticosità dell’azione, appare meno variegato. Massimo Cavalletti è un buon Ford, vocalmente brioso e partecipe scenicamente, così come Massimo Demuro delinea un fresco Fenton, qualche incertezza iniziale è subito superata, a far valere il bel timbro nella sua aria.
Il quartetto di voci femminili, amalgamato ed incontenibile nell’azione scenica, era capitanato dalla decisa Carmen Giannattasio, un’Alice Ford di pragmatico buonsenso. La resa vocale non è più quella adamantina ascoltata nell’edizione precedente; pur facendo valere la sua professionalità si notano disomogeneità fra i registi e qualche acuto non ben rifinito. Efficace Quickly di Yvonne Naef, sempre però tentata dall’eccessivo uso di suoni poitrinè, la suadente Nannetta di Giulia Semenzato e l’ottima Meg di Annalisa Stroppa. Cajus un po’ stentoreo, quello di Carlo Bosi, buono il Baldolfo di Francesco Castoro, tutto giocato sul canto e altrettanto efficace il Pistola di Gabriele Sagoma, tutti e tre caratteristi d’altri tempi. Il Maestro Zubin Metha ha sviscerato le sfumature della partitura e l’orchestra, serrata e leggera, ha seguito le direttive del direttore in ogni dettaglio, traducendole in resa musicale compassata e nobile, ma senza grandi guizzi o scintilli vitali. Pur facendo cose egregie, la concezione musicale del direttore finisce per perdersi e diluirsi, soggiacendo al meccanismo teatrale ideato dal regista. Successo festoso. Recita del 10 febbraio.
Latest posts by GianFranco Previtali Rosti (see all)
- Romèo et Juliette, eterno è l’amore - 15 Febbraio 2020
- Guglielmo Tell e Aida scaldano il Teatro Sociale - 27 Gennaio 2020
- Brilla Sylvia, di Lèo Delibes - 16 Gennaio 2020
Irene Antonucci, il nuovo sorriso della tv italiana
Sylvie Lubamba, solidarietà a Salvini
Risotto al burro e timo con tartufo bianco
Cambiare la nostra idea di cambiamento