Fierrabras, un raro Schubert alla Scala di Milano

Franz Schubert sperava molto nel teatro d’opera, occasione per affermarsi definitivamente al grande pubblico. Scrisse undici lavori ma altri sette ne lasciò incompiuti: mai gli arrise fortuna. Opera eroico-romantica, Fierrabras doveva andare in scena sul finire del 1823 a Vienna, al Teatro di Porta Carinzia ma il vento di novità, suscitato dai nuovi melodrammi romantici in lingua tedesca, era già girato sfavorevolmente bloccandone l’andata in scena. Se si esclude l’edizione piuttosto rimaneggiata di Karlsruhe del 1897, centenario del compositore, l’autentica“prima” di Fierrabras va ascritta a merito di Claudio Abbado, che la mise in scena a Vienna nel 1988 per le Wiener Festwochen.
Per cogliere appieno il valore della fantastica partitura schubertiana, bisogna dimenticare le categorie operistiche cui siamo abituati e lasciare che sia la musica a dettare legge, non cercando giustificazioni drammaturgiche nell’improbabile libretto. La musica è il vero filo conduttore della vicenda, capace di evocare stati d’animo i più ideali e diametralmente opposti. Bisogna entrare in questo “sogno” schubertiano che immagina avvenimenti al limite dell’onirico, stati d’animo e situazioni drammatiche che sono un campionario degli archetipi dell’ideale interiorità umana. Le voci si piegano alla potenza della scrittura musicale e sono ininfluenti al fine del narrare: è la musica che si fa racconto. Lo spettacolo, una produzione del Salzburger Festspiele si limita invece a uno scolastico descrittivismo; Ferdinand Wögerbauer, scenografo, fa ricorso a fondalini e velatini monocromi medieval-romantici, effetto figurine Liebig. I costumi, anch’essi bianchi e neri (buoni e cattivi?) erano firmati da Anna Maria Heinreich. Regia naive (a tratti francamente ridicola) di Peter Stein, afflitta da lenti cambi di scena che spezzano il fluire della partitura.
Meglio il versante musicale, cominciando dall’attenta direzione di Daniel Harding che inizia con un’intensa ouverture, ma allentando in seguito la tensione con momenti statici; qualche scollamento, nei passi più concitati, tra orchestra e palcoscenico. Per quanto riguarda le voci, meglio quelle femminili con l’appassionata Emma di Anett Fritsch, bel timbro, voce ben proiettata ma che spinge e forza in acuto. Dorothea Röschmann offre a Florinda una voce calda ed espressiva, ben controllata e modulata: credibile interprete e potentemente drammatica nella scena della prigione; struggente in sensualità il duetto con Maragond di Marie-Claude Chappuis. A Fierrabras prestava la voce rotonda Bernard Richter, nel delineare un partecipe personaggio. Il Roland di Markus Werba aveva un buon inizio, ma tutto vien poi spinto con foga, senza trovare un accento eroico. Eginhard era il tenore Peter Sonn, voce un po’ tremolante e senza corpo, tutta in superficie; è alla fine debole e sbiancato, con fastidiose riprese di fiato a spezzare la frase musicale. Carlo Magno dal bel personale, quello di Tomasz Konieczny; voce corposa, accento tagliente e interpretazione pregnante. Sempre efficace il Coro scaligero, con particolare nota nel canto a cappella del secondo atto. Pubblico non foltissimo ma interessato, che resta quasi per intero sino alla fine della lunga rappresentazione. Recita del 15 giugno.
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