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Home›Slider›Gergiev esalta Chovanscina

Gergiev esalta Chovanscina

By GianFranco Previtali Rosti
12 Marzo 2019
12524
1
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Chovanscina, opera incompiuta di Musorgskij, ha sempre trovato una speciale attenzione nella programmazione del Teatro alla Scala. Data con buona frequenza (nove edizioni in totale) a partire dal 1926, piace ricordare le due ultime: quella del 1981 con un’interessantissima messinscena di Liubimov, nel Musorgskij Festival, e quella del 1998 diretta da Valery Gergiev.  Il temperamentoso direttore russo, a perfetto agio in un repertorio che sente particolarmente suo, lo ritroviamo sul podio per questa nuova edizione, in scena in questi giorni sul palcoscenico del Piermarini.  

Chovanscina è eseguita ormai stabilmente nella revisione e orchestrazione di Dimitrij Sostakovic, dalla stesura originale pubblicata da P. Lam. Alla morte di Musorgskij l’opera era uno spartito per canto e piano, senza orchestrazione; Rimskij-Korsakov curò una sua versione ma, seguendo il lussureggiante gusto personale, finì per stravolgere l’idea originaria del collega, offrendone un’orchestrazione stilisticamente lontana dal pensiero originale dell’autore.

Chovanscina, nel progetto di Musorgskij,era il secondo pezzo di un trittico che progettava di comporre: il primo è BorisGodunov, ambientato nel periodo storico tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600. Il terzo tassello, nelle speranze dell’artista, sarebbe statoLa rivolta di Pugacev, che si rifà al mitico personaggio vissuto nella seconda metà del ‘700. Chovanscina è un vero ginepraio simbolico-drammatico, ambientata in un periodo torbido della storia della Russia sul finire del 1600. 

A differenza di BorisGodunov, Musorgskij deve elaborare da sé un canovaccio, condensando il magma di accadimenti, congiure e rivolte, sullo sfondo di una Russia immersa nel clima medievale del trapasso verso quella “moderna”, di  Pietro il Grande. Il compositore scrisse la partitura ben sapendo che il naturale destinatario era quella classe colta, venata di ostilità verso l’assolutismo zarista, che ben conosceva gli antefatti della complessa materia musicale.  

Le vicende narrate, complice lo svolgersi su piani differenti,  non risultano facilmente accessibili allo spettatore odierno, lontano da ogni possibilità di un casuale interessamento. Non aiutato in questo, dallo spettacolo affidato al regista Mario Martone che sceglie, come idea guida, di ambientare la vicenda in uno spazio atemporale, ammantandola di un pauperismo post bellico di assoluta desolazione (Margherita Palli, costumi di Ursula Patzak) insufficiente a sviscerare la complessità dell’opera.

Pur riconoscendo l’abilità registica del movimento delle masse,  Martone lascia inesplicate molte questioni, prima fra tutte il fanatismo religioso, spinto fino all’immolazione collettiva finale. Ci pensa però la musica di  Musorgskij a travolgere di emozioni lo spettatore. Valery Gergiev con un gestoasciutto e perentorio illumina la partitura in ogni recondito recesso; una direzione forte di una  passionalità scabra quando efficace, una lama d’acciaio che non concede niente al folclorismo. Meraviglioso nel preludio, superlativo nel  finale primo atto: Dosifej, con un Coro impeccabile e splendido per sfumature, travalica e sublima l’insipienza e aridità scenica.

Per tutti e cinque gli atti Gergiev mantiene la stessa incisiva drammaticità, ma senza escludere slarghi di leggerezza o sensualità, come nella “danza delle schiave persiane”; momento di precisa valenza espressiva, in cui la musica e il direttore fanno provare allo spettatore un esacerbato senso di lontananza, di straziante solitudine, mentre in palcoscenico si vede un numero da crazy horse.

Ekaterina Semenchuk for IMG Artists

Ottimo il ricco cast: Ivan Chovanskij protervo di Mikhail Petrenko, anche se spesso forza più che cantare, supplendo con la recitazione e il fraseggio agitato e rovente all’affievolita rotondità e pastosità del timbro; efficace quando si tratta di urlare la tracotanza del personaggio sa trovare accenti malinconici, fatto prigioniero. Andrei Chovanskijben caratterizzato dal convincente fraseggio, quello di Sergey Skorokhodov. Šaklovityj imponente di Alexey Markov,  la voce di maggior volume e sonorità ed anche il timbro più fascinoso, del parco voci maschili. Dosifej insinuante e carismatico di Stanislav Trofimov, che trasmette con il suo canto la fede incrollabile che lo anima e sostiene. Anche Evgeny Akimov centra il personaggio del Principe Vasilij Golicyn, con uno scultoreo e analitico fraseggio. Marfa intrigante già nel timbro, quella di Ekaterina Semenchuk, brava e trasognata, ammaliante nella canzone del III atto, impressionante per pregnanza evocativa, drammaticità tesa al calor bianco, ammanta questa figura femminile di ricchezza interiore e profondità spirituale, screziata di sensualità e pur irrazionale nel suo misticismo. Meglio Susanna di Irina Vashchenko della Emma dalla voce sempre spinta di Evgenia Muraveva. Scrivano partecipe interprete e ben caratterizzato di Maxi Paster, efficace il Pastore luterano di Maharram Huseynov.

Precisi gli altri, quasi tutti proveniente dall’Accademia del Teatro. Coro protagonista assoluto, come si è già detto. Successo entusiastico, di un pubblico che, tolta qualche defezione, non ha faticato a seguire fino in fondo l’opera.

Molto applaudito tutto il cast, con punte di grande apprezzamento e calore il per il Dosifej di Stanislav Trofimov e ancor più per la Marfa di Ekaterina Semenchuk. Ovazioni per il direttore, Valery Gergiev.

Recita del 3 marzo.

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GianFranco Previtali Rosti

gianfranco.previtalirosti@milanoreporter.it

1 comment

  1. agosto 14 Marzo, 2019 at 15:55 Rispondi

    bravo, hai reso bene l’idea

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