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SpettacoliTeatro
Home›Spettacoli›Giovanna d’Arco sconfigge tutte le paure

Giovanna d’Arco sconfigge tutte le paure

By GianFranco Previtali Rosti
9 Dicembre 2015
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Se nei disegni della Provvidenza niente accade per caso, la scelta di Giovanna d’Arco, opera che ha inaugurato la stagione del Teatro alla Scala, sembra emblematica: riassume la condizione minacciosa che ci sovrasta e in cui ci troviamo immersi.

Non dimentichiamo il teatro fa (o dovrebbe fare) da specchio ai tempi in cui si vive. Giovanna d’Arco è una partitura di Giuseppe Verdi assente da Milano per 150 anni, messo ora al centro delle odierne riflessioni. Certo la santità ha oggi così poco credito, che si preferisce far passare per visionaria o eretica una figura solo per certi aspetti controversa. Milano, alla prova della serata più importante dell’anno, ha reagito nel migliore dei modi; dall’alto dell’esacerbata tensione per i ripetuti bollettini allarmistici, tutto si è svolto con estrema civiltà. Imponente e palpabile lo spiegamento di forze dell’ordine: un flusso che costituiva un curioso intreccio con quello degli spettatori, tutti in teatro per tempo. Presente, quanto comprensibilmente scavalcata dagli eventi attuali, la solita manifestazione di protesta, relegata a nota di folklore, indipendentemente dalle ragioni che la muovono.

All’inno nazionale (anche se non presente il Capo dello Stato, ma il Presidente del Consiglio), sentito cantare da diversi spettatori, la tensione è sciolta e con il buio in sala il teatro prende il sopravvento sulle paure del vivere e le miserie umane, lasciate per un attimo a lato: inizia la magia della rappresentazione.

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Entra il Maestro Riccardo Chailly, salutato da un cordiale applauso, e attacca l’ouverture. Sin dalle prime battute si intuisce la cifra stilistica impressa al melodramma del cosiddetto “primo Verdi”. Chailly dirige con una passione e un’adesione totale trasmettendo innanzitutto che Giovanna d’Arco non è una partitura militare, fatta di fuoco e sangue, ma trasognata, dolente e in certi passi visionaria. Da qui una dinamica orchestrale in cui intensifica e smorza i suoni, senza per questo perdere di mordente. I passi marziali saranno allora vigorosi e sanguigni, quanto ispirati e trasognati i momenti elegiaci. Una direzione analitica e molto variegata. Il soprano Anna Netrebko, nei panni della protagonista, si conferma un “animale da palcoscenico”, impiegando le peculiarità del suo strumento vocale ai fini espressivi di una compiuta caratterizzazione del personaggio. Voce di soprano lirico si cimenta in una parte di lirico “pieno” in cui la veemenza di alcune frasi drammatiche si innesta sulla purezza quasi belcantistica delle colorature. La Netrebko, ad onta di centri un po’ gutturali e di alcuni suoni tubati e gonfiati, in cui indulge, sfoggia un’ottava superiore cristallina, con acuti scintillanti e timbrati. L’acuto calante, in un concitato concertato, è da registrarsi quale incidente di percorso. Si butta con tutta se stessa nel personaggio della Pulzella, facendo dimenticare alcune goffaggini sceniche, risultando una Giovanna intensa e generosa, in scena per quasi tutta la durata dello spettacolo. Carlo VII era il tenore Francesco Meli, voce dal timbro gradevole anche se di volume non eccezionale, che parte un po’ sulla difensiva: attento a cantare correttamente, non sfugge ad acuti un po’ piccoli e in occasionali falsetti sbiancati. Nel procedere dell’opera riesce a trovare accenti più convincenti, offrendo il momento migliore nella scena finale, dove sa essere patetico e accorato.

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Come già annunciato in mattinata, il baritono Carlo Alvarez deve dare forfait e cedere il testimone a Devid Cecconi che già aveva cantato nella generale e anteprima dei giovani: il giovane baritono sostituto assolve onorevolmente il compito di far andare in scena lo spettacolo. Se è giusto sospendere il giudizio su una prestazione in cui non era il titolare, resta doveroso dire che il suo strumento vocale non mostra caratteristiche di pregevolezza e squillo, anzi piuttosto ruvido e senza smalto, per tacere della scarsa incisività di fraseggio in uno di quei ruoli di padre che saranno la cifra stilistica di Giuseppe Verdi. Ottimo il Talbot di Dmitry Beloselskiy, voce scura e vellutata; Delil era un efficace Michele Mauro. Lo spettacolo era affidato alla coppia Moshe Leiser – Patrice Caurier che addomestica temi poco digeribili oggi: coscienza, il bene, il male e trova (come tutta la società di pensiero occidentale) imbarazzo estremo e fastidio per una figura che osa dichiararsi “cristiana”, senza se e senza ma (un cristianesimo lontano anni luce dal buonismo moderno), cui non resta altro che farla apparire politically correct o, peggio, deriderla. Da qui ne seguono le visioni della santa quali deliri della propria mente, proiettati nella stanza, vagamente da ospedale psichiatrico ottocentesco. Il risultato è un po’ troppo ingenuo: se sono apprezzabili i tableau vivants formati dal coro, (veri e propri quadri che prendon vita) e il giostrare bene le masse, resta la noia per quel bisogno di proiettare immagini a commento dell’azione, togliendo alla musica il compito di render visibile l’immaginario. Banale, quanto imbarazzante, la soluzione del conflitto bene/male della protagonista come dicotomia tra sensualità contrapposta a Jesu et Maria. Tralasciamo il Re dipinto d’oro, reminiscenza del Mago di Oz..Una calorosa accoglienza finale, con lancio di fiori, ha accolto i cantanti e le masse artistiche, a sottolineare la sconfitta di una paura che non deve attanagliare la nostra società.

 

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