House of Cards. E’ veramente la fine?

La sesta stagione di House of Cards, la prima senza Kevin Spacey, segna la fine ufficiale della serie. Ma il lavoro di Claire Underwood, che succede al marito Frank nel ruolo di Presidente degli Stati Uniti è tutt’altro che concluso. Per cui, mai dire mai.
Comunque vada, la sesta stagione di House of Cards avrà un valore storico. Oltre ad essere la prima serie in cui il protagonista viene licenziato in tronco a fronte di accuse di molestie sessuali su un minorenne, rappresenta anche la fine ufficiale della prima serie mai prodotta da Netflix. Il gigante americano, che oggi produce contenuti con una frequenza e una qualità incredibili, lanciò la serie nel lontano 2013, nel tentativo (poi riuscito) di acquisire sempre più utenti e diventare il servizio di riferimento per l’online video streaming.
Dal punto di vista artistico, la realizzazione di questa sesta stagione si preannunciava come un’impresa rischiosa e complicata. Rinunciare a un attore del calibro di Kevin Spacey – perché indipendentemente dalla verità sulla triste vicenda che lo ha coinvolto, stiamo parlando di un artista di livello altissimo – significa reinventare le dinamiche della storia, dando maggior peso ad alcuni personaggi e introducendone di nuovi. O almeno questa è la strada seguita dagli autori.
La sesta stagione di House of Cards inizia laddove si era conclusa la quinta ma con una variante importantissima. Claire Underwood è in nuovo Presidente, ma suo marito Frank è morto. Non si parla più d’indulto quindi, non ce n’è più bisogno. La Signora Underwood si deve dedicare a combattere i suoi nemici e tutte quelle persone che cercano di addossare a lei le colpe del marito defunto.
Lo stile inconfondibile di House of Cards non cambia. Intrecci e giochi di potere, allusioni ai difetti reali del mondo politico moderno, fino ai monologhi del Presidente con gli spettatori. Monologhi che, per la verità, non hanno lo stesso fascino di quelli interpretati da Spacey. Nonostante la mancanza evidente del suo protagonista, la serie regge (specialmente per la bravura di Robin Wright), ma il finale – a dir poco rocambolesco – finisce per rovinare tutto. Otto episodi sono davvero pochi (le stagioni precedenti erano di tredici) e negli ultimi due si finiscono per ammassare troppe cose, tanto da far sembrare gli ultimi venti minuti un “fast forward” di eventi piuttosto che il finale di una serie amata da milioni di telespettatori. Un peccato.
Al momento non vi sono segnali di apertura di Netflix su un’eventuale dietro front e la programmazione di una nuova stagione, ma la storia ci ha insegnato che la speranza deve essere sempre l’ultima a morire. La stessa Netflix ha ridato vita a un paio di vecchie serie (Arrested Development e Gilmore Girls) che erano ormai finite nel dimenticatoio. Magari tra due o tre anni avremo modo di vedere che ne sarà della prima Presidente donna degli Stati Uniti. Magari proprio quando ce ne sarà una anche nel mondo reale.
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