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Home›Milano›I Vespri siciliani al Teatro alla Scala

I Vespri siciliani al Teatro alla Scala

By GianFranco Previtali Rosti
12 Febbraio 2023
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Les Vêpres siciliennes è la seconda delle tre opere che Giuseppe Verdi scrisse su libretto francese, dopo Jérusalem e prima di Don Carlos. Verdi, dopo la notorietà conseguita con lo strepitoso successo di Nabucco alla Scala, aveva rapidamente conquistato fama anche nelle capitali d’oltralpe. A Parigi il Théâtre -Italien aveva messo in scena Nabucco, Ernani e I due Foscari, produzioni salutate da un successo tale da indurre il Théâtre de l’Opéra a commissionargli la prima opera in francese, Jérusalem, cui farà seguito nel 1855 Les Vêpres siciliennes. Una gestazione piuttosto tribolata per le lungaggini e le intemperanze del librettista Scribe, inoltre reo di aver fornito al compositore bussetano un lavoro non certo di prima mano: il libretto altro non era che il riutilizzo, debitamente rifatto, del Duca d’Alba che il povero Gaetano Donizetti non riuscì, per la sua morte, a portare a termine. Particolare questo deliberatamente nascosto al bussetano, che ne avrà cognizione solo quando l’opera donizettiana, quasi trent’anni, sarà portata in scena. Altri incidenti di percorso segnarono il tribolato esordio dell’opera verdiana, il più clamoroso fu l’abbandono e poi l’inaspettato ritorno sulle scene della primadonna Sofia Cruvelli.

Il 13 giugno 1855, Les Vêpres siciliennes andarono finalmente in scena, nel pieno dell’ Exposition Universelle agli Champs-Élysées, che per la prima volta comprendeva un padiglione dedicato alle Belle arti. L’esito fu buono, anche se sulle prime non proprio entusiastico, restando l’opera in repertorio del teatro parigino fino al 1865, con più di sessanta repliche. Immancabile, neanche a dirsi, la presenza dei ballabili, puro “divertissement” de Le quattro stagioni, che trovarono ragion d’essere nel coreografo Petipa (il meno celebre Lucien, non Marius) ma ancor più nella presenza di due glorie della Scuola di Ballo del Teatro alla Scala, vivaio sfolgorante di stelle, del calibro di Claudina Cucchi e Caterina Beretta.

L’editore Ricordi pubblicherà lo spartito in traduzione italiana con il titolo Giovanna de Guzman (nel 1856 anche alla Scala) onde parare i colpi dell’occhiuta censura nostrana. Da noi il primo palcoscenico a godere dell’edizione italiana sull’originale francese sarà, quando si dice la sorte, proprio Palermo, al Teatro Carolino nel 1861, all’indomani della cacciata dei Borboni.

Il Teatro alla Scala ha scelto per ben cinque volte I Vespri siciliani quale titolo inaugurale della stagione d’opera, proponendolo ora in una nuova produzione affidata a Hugo De Ana; nuovo allestimento di cui il regista argentino cura anche scene e costumi. Sedotto lui pure da schizofrenica attualizzazione costruisce uno spettacolo con un melting pot di accozzanti simbolismi, dal bergmaniano rimando al Settimo sigillo, con la morte che gioca a scacchi con la controfigura del protagonista, a una Vergine di Macarena che offre un pugnale (al posto delle lacrime) dai movimenti schizzoidi, a madonne di varie altre epoche unitamente a gran crocifissi. Sciamano popolane migranti con eterne valige (più sarde che sicule) cui si frammischia la Duchessa Elena, su una processione di bare e urne cinerarie (?). Chi la fa da padrone è il gran dispiegamento di artiglieria pesante parata in scena schierata contro un nemico inesistente, se non quello smandrappato di poveri oppressi, in un feroce monocromatismo di grigi e neri plumbei a disegnare si plastici tableaux vivant, ma che pur non riescono a far teatro.

Quel che si vede cozza e con il libretto, a tratti roboante e flamboyant e con la lussureggiante musica (impegnatissima, per certi versi più elaborata che quella di tutte le sue opere precedenti; e non avara di pagine superbe a dir di Fedele d’Amico). Scoppi sulla musica di cannone e armi, alla fine del primo atto, sollecitano spiritose intemperanze dal loggione. De Ana livella e degrada tutto al basso, e non si sente la nobiltà (e di conseguenza neppur la cattiveria) dei principali personaggi: la Duchessa vestita di miseri cenci o vestitino fiorato emerge dalle popolane solo col canto, Arrigo dalle eterne mani in tasca, Procida par un onesto orologiaio e Monforte il podestà del paese. Per tacere dello spezzar di tensione drammatica, con frequenti e lunghi cambi di scena. Luci calzanti di Vinicio Cheli e modesta azione coreografica ideata da Leda Lojodice. Il direttore Fabio Luisi inizia con una sinfonia lenta e compassata, per farsi poi focosa e tumultuante, che riverserà nel resto dell’opera: gagliardo e mordente, a volte per sin gradasso a raccontare il Verdi patriottico.

La duchessa Elena di Marina Rebeka ha bel timbro, ma in più punti la parte di Elena non sempre le si attanaglia, risultando troppo bassa, non mostrando larghezza di voce e ampiezza di frase, pur trovando in Presso alla tomba accenti convincenti e accorati. Decolla a partire dal secondo atto, con finezza di emissione e pura linea di canto, risolve bene il Bolero, squilla in alto, ma meglio fa nel duetto Arrigo! Ah parli a un core tenera e appassionata, in un crescendo di emozione che coinvolge il tenore; smorza, lega la frase in bell’arcata sonora. Arrigo correttamente cantato di Piero Pretti, anche se tende a limitare le energie per la seconda metà dell’opera; dotato di squillo, finisce per essere però tutto spinto in alto. Ne scapita il fraseggio, spesso superficiale, soprattutto nel I atto, nell’incalzante incontro con Monforte. Giorno di pianto è il suo momento migliore, ma tutto è sforzato. Guido di Monforte Luca Micheletti, voce di non particolare tonnellaggio ma usata con proprietà, accenta sempre con correttezza e spesso con nobiltà.

Nell’aria In braccio alle dovizie trova accenti di dolorosa mestizia, di vuoto immenso e orribile dell’animo umano. Potente – e con lui gli altri principali – nel drammatico finale dell’atto terzo, con un’interpretazione che si eleva nel prosieguo. Giovanni da Procida Simon Lim sfoggia bel timbro, voce sonora, acuti ben immascherati ma l’interprete latita di vero sdegno, non colpisce per limitata capacità di colorire la parola. Bene Il signore di Bethune di Andrea Pellegrini e la corposa voce di Valentina Pluzhnikova, Ninetta. Funzionali Il conte Vaudemont Adriano Gramigni, Danieli Giorgio Misseri, Tebaldo Brayan Avila Martinez, Roberto Christian Federici e Manfredo Andrea Tanzillo. Successo caloroso per tutta la compagnia. Teatro alla Scala, recita dell’8 febbraio.

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