Il Borgomastro di Saardam, uno zar a Bergamo

Rossini si era appena trasferito a Parigi, nell’esilio dorato che si era scelto dopo la decisione di non comporre più. La grande popolarità e l’imperiosa predominanza delle sue opere continuavano però a marcare il panorama musicale italiano degli anni 1825-30. Dopo Semiramide, ogni opera italiana era inevitabilmente composta in quello stile, con pennellature di individualità. Diversi i compositori che ambivano a raccoglierne l’eredità musicale, e tra questi cominciava a farsi spazio Gaetano Donizetti. Tutti erano alla ricerca di uno stile personale, pena il rischio di scomparire e di essere dimenticati: ma non si poteva deviare troppo da quello rossininano (tema la caduta) e neppure imitarlo troppo da vicino, per non essere accusati di mancanza di originalità o, peggio, di plagio. Su questo orizzonte nasce Il Borgomastro di Saardam, scritto per il Teatro del Fondo Napoli, dove andò in scena 19 agosto 1827. Il cast di nomi prestigiosi (Ungher, Winter e Casaccia) gli valse 14 repliche e altre ne raccolse nel corso delle stagioni successive, fino al 1840, per un totale di 33 recite. Non così felice l’esito della prima milanese al Teatro alla Scala, nel gennaio del 1828 che fu un insuccesso, andando in scena per una sola replica. La partitura era stata rivista, sostituendo al dialetto napoletano la lingua italiana e riposizionando alcune arie, mettendo più in risalto il personaggio di Marietta. I cantanti ingaggiati non erano dello stesso valore di quelli napoletani (solo Carolina Ungher spiccava nel cast), e si pensa sia stata questa una causa dell’insuccesso.
Il Borgomastro di Saardam è un’opera buffa e benché sia molto debitrice agli schemi rossiniani, si inizia a intravedere quelle che saranno poi le cifre stilistiche del compositore bergamasco. I nuovi spunti (che ritroveremo compiutamente in Elisir d’amore) sono il pathos del duetto del II atto “Allor che tutto tace”, dalla tinta già squisitamente donizettiana, la baldanza dell’aria di ingresso del Borgomastro, la maestà dell’aria dello Zar del II atto, “Va e la nave in un baleno”. Una composizione piacevole, da prendere come iniziale lavoro di maturazione dell’opera italiana e progressione per un’entità più drammatica. Il Borgomastro era praticamente caduto in oblio e sparito dalla circolazione dei teatri dopo il 1840, per riapparire nel 1973 in Olanda, a Zaardam, a onore della antica Saardam.
A Bergamo il Festival Internazionale dedicato a Donizetti, nella sua II edizione, propone Il Borgomastro di Saardam in un nuovo allestimento che porta la firma del regista Davide Ferrario, scene di Francesca Bocca e costumi di Giada Masi. Uno spettacolo tutto sommato godibile, in cui il regista è morso dall’ansia di tutto raccontare e affastella riferimenti. Più riuscito nel primo che nel secondo atto, dove sovrabbonda l’utilizzo della “settima arte”: citazioni cinematografiche che spaziano dall’omaggio all’architetto Giacomo Quarenghi (sua la grande San Pietroburgo), alle strizzatine d’occhio a Città Alta e Bergamo, a spezzoni di film muti non sempre pertinenti. Soprattutto là dove la musica (il turbinoso finale atto I), non ha bisogno di essere esplicitata. Un horror vacui che finisce per penalizzare la leggerezza dell’azione.
Sul podio il Maestro Rizzi Brignoli dirige con freschezza e brio la partitura, resa viva da un cast professionale. La voce più completa è parsa quella di Giorgio Caoduro, uno Czar al tempo stesso umano e comprensivo quanto idealista e determinato. Bel timbro rotondo di baritono, fluido nelle vocalizzazioni, mostra solo qualche affaticamento nella grande e lunga aria del II atto. Pietro Flimann era Juan Francisco Gatell, voce di tenore leggero che tende alla sbiancatura, ottimo nel sillabato. Il regista ne fa un personaggio un po’ tonto e un innamorato flebile e remissivo, accostato all’imperiosa sicurezza dell’innamorata Marietta. Irina Dubrovskaya, gioca ironicamente a far la primadonna (sua l’aria finale che chiude l’opera), usando una voce or piena or più leggera da soprano coloratura, per una parte che è un po’ soubrette. Andrea Concetti impersonava Wambett, Borgomastro vagamente caricaturale, dalla vis comica funzionale, ma tutta di superficie. Apprezzabile nell’aria di sortita del I atto, trova i momenti migliori nel veloce sillabato, per quanto la voce risulti sempre un po’ priva di corpo. Buono il Leforte di Pietro Di Bianco, dal bel personale (tanto da traviare la neo sposa figlia del Borgomastro, in una licenza registica), così come apprezzabile sono Pasquale Scircoli come Alì Mahmed e la Carlotta di Aya Wakizono. Successo festoso per tutti.
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