Il procelloso approdo de Il Pirata alla Scala

La perla che chiude il cartellone del Teatro alla Scala, prima della pausa estiva, è un titolo per certi aspetti mitico: Il Pirata di Vincenzo Bellini. Entrato nella leggenda fin dal suo apparire nel 1827, sul palcoscenico milanese. Il trionfo di quella serata (soprano e tenore dovettero bissare il duetto del primo atto) rivelò al tempo stesso il compositore catanese e Giovan Battista Rubini, il tenore idolatrato e più famoso dell’ottocento. La protagonista, Henriette Meric Lalande, era uno dei soprani preferiti di Bellini e Donizetti, che composero per lei La straniera,Zaira e Lucrezia Borgia.
Negli annali scaligeri vi fu poi, nel 1958, la trionfale serie di recite con Maria Callas e Franco Corelli (e Bastianini), segnate anche dalle polemiche dell’addio del soprano alla Scala (quel palco funesto…all’indirizzo dell’allora Sovrintendente Ghiringhelli). Con Il Pirata Pereira continua lo scandaglio di titoli operistici non comuni o di scarsa programmazione, sfidando luoghi comuni e reazioni del pubblico. Dopo quel che è successo alla prima (ma di vedovi Callas non ne è rimasto che uno sparutissimo drappello…) e alla seconda recita, la sorte ha deciso di rimetterci lo zampino anche alla terza. Un intervallo prolungatosi oltre il dovuto faceva temere qualche nuova defezione.
La comparsa del Sovrintendente confermava i sospetti annunciando, in un piccato battibecco con alcuni intemperanti, il calo di pressione di Pretti che avrebbe proseguito cantando seduto. L’opera di Bellini è stata presentata in un’edizione pressoché integrale, che ha svelato la reale complessità della partitura. Al Direttore Roberto Frizza il merito di una concertazione attenta e premurosa nel sostenere i cantanti; corretta la direzione, anche se mai veramente ispirata e lievitante.
Il Pirata, opera essenzialmente tenorile, ha trovato in Piero Pretti un interprete generoso e professionale, ma non basta. Gualtierosi avvale del bel personale del tenore sardo a disegnare il profilo del romantico maledetto, in certi punti efficace, ma la voce non ricca di armonici e di timbro vagamente arido, suona sempre tesa in uno sforzo, frenando la fluidità di emissione. Tutto giocato sul forte-mezzo forte, il suo canto mostra acuti sempre tirati e colorature non morbide, con variazioni inesistenti. L’interprete mostra poca fantasia nel fraseggio (Bagnato dalle lagrime) e poco centrato negli accenti. Si ribadiscono il coraggio e lo sforzo, nel II atto, a sostenere, seduto, in condizioni non perfette, tale impervia tessitura. Imogene, si ammanta del bel timbro di Sonya Yoncheva, personale e interessante, ammaliando e avvincendo con una prestanza e una determinazione scenica. Inizia bene (Lo sognai…), toccante accento, tenere smorzature. Ma gli acuti sono attaccati sempre forti, spinti, le colorature appropriate ma non fluide e impeccabili. La voce suona al meglio nella zona medio alta, ma deve far ricorso a suoni di petto per allargare i gravi. Suoni poitrinèeche si vanno accentuando nella scena finale, proprio là dove l’accento si fa più drammatico e appaiono segni di stanchezza.
Bene invece nel duetto con Gualtiero, sciorinando mezze voci e intensità interpretativa; anche Pretti dà il meglio in questo punto, dove il canto di Bellini trasfigura. Un’interpretazione apprezzabile, anche se il soprano risolve il personaggio più con il canto, avvalendosi di un timbro fascinoso, che con un fraseggio davvero appassionante, dove le emozioni vere e brucianti sono poche. Deludente Nicola Alaimo che presta a Ernesto una voce piccola, che non “suona”, dalle colorature sui generis, con acuti velati e senza squillo: un debole Duca di Caldora, dal fraseggio privo di ampiezza e nobiltà. Piatto l’Itulpo di Francesco Pittari, accettabile Adeledi Marina de Liso mentre ottimo era Goffredo dalla voce grave di Riccardo Fassi e con incisivo fraseggio.
Efficace il Coro scaligero. Lo spettacolo, scene di Daniel Bianco, consisteva in uno spazio essenzialmente atemporale, lasciando allo spettatore il compito di immaginare; specchi riflettenti in un su e giù già visto. Regia di Emilio Sagi, mediocre e senza grandi voli di fantasia, fatta di gesti stereotipati. Costumi di Pepa Ojanguren: un ammicco al Gattopardo e uno al ‘900.
Applausi tiepidi ai singoli pezzi nel I atto e una chiamata al finale primo, più consistenti dopo la scena madre. Trionfo per la Yoncheva e calorosi applausi per Pretti. Festeggiati gli altri. Recita del 6 luglio.
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