L’impunità pedatoria: Sarri – Mancini

Nel 1948, nell’Italia che ripartiva fra le macerie, il principe De Curtis fu diretto da Mario Mattioli in “Totò al giro d’Italia”, che sfruttava l’entusiasmo popolare per l’impresa di Gino Bartali al Tour (la stessa eternata dal mitico Paolo Conte nella canzone dedicata a Ginettaccio). L’esile trama prevedeva che Totò, improbabile docente bresciano, innamoratosi della procace Isa Barzizza, ne viene respinto con la bizzarra condizione che cambierà idea ove il professor Casamandrei (il personaggio interpretato da Totò) vincesse il Giro d’Italia. Per raggiungere l’obiettivo il professore non trova di meglio che vendere l’anima al diavolo; ma essendosi pentito del contratto, cerca di farsi arrestare per non partecipare alla tappa conclusiva. Il commissario che dovrebbe trarlo in arresto, però, è ammirato delle sue vittorie sportive e quindi “chiude un occhio”. A questo punto Totò, per farsi trattenere in guardina, si mette a ingiuriare le istituzioni, a proclamarsi fascista, a invocare eversione e rivoluzione, cercando invano di smuovere il commissario dalla sua indulgenza. Ci riuscirà solo quando, per improvvisa illuminazione, comincerà a inveire contro le squadre di calcio, ed in particolare ad esaltare l’Inter appetto del Palermo caro al cuore del questurino. A quel punto la cella sarà inevitabile. L’aristocratico e melanconico re della risata e i suoi formidabili sceneggiatori (gente del calibro di Marcello Marchesi, Vittorio Metz e Steno) avevano colto ante litteram che il calcio fosse l’unica autentica religione civile degli Italiani.
Molta acqua è passata sotto i ponti da allora, la domenica calcistica ha perso la sua sacrale e manzoniana unità di tempo e di luogo, sbriciolandosi in anticipi, posticipi e turni sgranati dal venerdì al lunedì; la voce un tempo oracolare del radiotelecronista ha ceduto il passo ai corifei, dal commentatore ai bordocampisti; le curve sono uscite dal brusio indistinto e dalla diade fischi-applausi per assurgere a protagoniste, con coreografie e cori in gara di fantasia; l’immagine televisiva, dal lungo piano-sequenza delle telecamere in altotribuna, è diventato caleidoscopio frattale, in aperto e talora ostentato dialogo fra pubblico, maxischermi e spettatori remoti. Insomma, è cambiato tutto: ma il calcio continua ad essere fuori dal continuum, luogo appartato e legibus solutus rispetto a qualsiasi altra dimensione o sollecitazione. Ricordo che la sera dell’11 settembre 2001, dopo aver passeggiato a lungo nelle strade deserte della piccola città dove abito, entrai in una pizzeria desolatamente vuota, ma con l’eccezione di una tavolata di persone vocianti, forse una decina. Mentre il resto del mondo contemplava l’incubo di un’imminente terza guerra mondiale, loro si entusiasmavano alla percezione catodica di Roma e Real Madrid impegnate all’Olimpico in un sedicesimo di Champions. Una visione così inattendibile, e in pari tempo così tenera, da strapparmi un sorriso. Per questo non è vero che, come vuole la vulgata, “quel che succede in campo finisce in campo”. E’ vero il contrario: il calcio è un campo gravitazionale specifico, che attrae e risucchia in sé ciò che lo circonda. Che non ha e non può avere alcuna politically correctness.
Il calcio è per definizione machista e omofobo, al punto da meritare l’icastica frase di George Bernard Shaw “per giocare a calcio non è necessario essere imbecilli; però aiuta”. Il costante richiamo alle squadre in crisi perché “tirino fuori gli attributi”, l’ossessiva precisazione che “il calcio non è uno sport per signorine” non sono occasionali incidenti di percorso, ma cifra strutturale del fenomeno. Il grande calciatore dell’Inter Benito Lorenzi (per gli amici “Veleno”) chiamava “Margherita” il grandissimo Giampiero Boniperti solo per i suoi tratti lievemente efebici. E l’appellativo di “abatino” o di “pallido prence mandrogno” con cui Gianni Brera marchiò Gianni Rivera aveva un suo retrogusto di scarsa o tenue virilità. Allusione ed idea sanguinosa; forse non molti ricordano che il silenzio stampa della nazionale di Bearzot ai vittoriosi mondiali del 1982 fu originato non da critiche sportive, ma dall’insinuazione (fatta da Oliviero Beha) che i rapporti fra il bell’Antonio Cabrini e il geniale Pablito Rossi fossero un po’ più che amichevoli. In nessun altro ganglio sociale sarebbe consentito a un presidente di dare del mangiabanane a una persona di colore, ad un altro di definire lesbiche delle calciatrici e via raccapricciando.
Per questo sono penose le esimenti ed attenuanti trovate all’allenatore del Napoli, il bravo Maurizio Sarri, che ha dato del frocio al suo collega di panchina (dell’Inter) Roberto Mancini. Sarri si è scusato, e ha fatto metà del suo dovere; ma non ha tradito e infangato la natura del suo mondo professionale: l’ha descritta. Ed è un mondo becero ed omertoso, come ha egregiamente chiarito Silvio Berlusconi, ammonendo Mancini a lavare i panni sporchi in famiglia. Un mondo che approva ed apprezza la slealtà fraudolenta, purché sia svolta al servizio delle proprie bandiere, che pratica un irresistibile e permanente doppiopesismo, che si balocca con il benaltrismo vittimista (come quando i difensori di Sarri chiamano in causa i non meno infami cori beceri dell’antinapoletanità).
Un mondo privilegiato, imbottito di soldi, ossequiato da una visibilità negata ad altri e più meritevoli mondi, e che tuttavia fa fatica ad accettare le connesse responsabilità: sono inquadrati da decine di telecamere, visti da milioni di persone, ma sulle loro labbra l’insulto omofobo o razzista (per giunta da parte di un calciatore che indossa la maglia della Nazionale) fiorisce sulle loro labbra come fossero al baretto dell’oratorio (no, forse lì sarebbero più cauti). L’impunità pedatoria ha per sé il pieno appoggio dell’opinione pubblica tifosa: non solo di quella paranoica (“è chiaramente un complotto contro il Napoli”), ma anche di quella più scafata, che esprime comprensione o definisce veniale la fotta dell’avversario sapendo che presto o tardi toccherà alla sua parte far ricorso alla medesima indulgenza.
C’è di positivo che l’impunità si circonda di norme, codicilli e giureconsulti esilaranti. Nel match Sarri-Mancini, ad esempio, l’allenatore partenopeo ha avuto una squalifica mite perché Mancini è “notoriamente eterosessuale”. Un singolare principio. Probabilmente sostenere che chi lo ha enunciato sia un ragguardevole imbecille comporterebbe un aggravio di pena; atteso che, notoriamente, lo è.
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