La giustizia comprensibile: quando tradire diventa un diritto

Ebbene sì, facciamocene una ragione. Per quanto possa sembrare surreale esistono ipotesi in cui, se il nostro coniuge ci tradisce, la legge lo giustifica e lo perdona.
Se dentro di noi potremo anche essere certe che la disfatta della nostra coppia sia dovuta alla crisi di mezza età di nostro marito, sul piano giuridico potremmo al contrario sentirci dire che siamo state noi a rendere il nostro matrimonio talmente complicato e frustrante da non lasciare altra scelta al nostro povero partner se non quella di rifugiarsi nella comprensione di qualcun’altra.
Scoprire l’infedeltà del coniuge, non comporta infatti automaticamente che il giudice addebiti la separazione al fedifrago. Anzi.
Se per ingenuo senso di rivalsa siete intenzionati a chiedere al tribunale di riconoscere e addebitare al vostro partner la responsabilità per aver distrutto la famiglia, con conseguente richiesta di risarcimento dei danni per aver compromesso irrimediabilmente anche la vostra serenità personale, sappiate che dovrete prepararvi alla guerra.
Infatti per la giurisprudenza più recente, violare uno degli obblighi più importanti inerenti al matrimonio (ai sensi dell’articolo 143 c.c. “l’obbligo reciproco alla fedeltà”) non può fondare in alcun modo la presunzione giuridica che sia stata proprio l’infedeltà a rendere impossibile la prosecuzione del matrimonio.
Ciò significa che se il coniuge responsabile del tradimento, riesce ad insinuare, negli atti del procedimento di separazione, un ragionevole dubbio sul fatto che manchi un nesso causale certo tra infedeltà e fine del matrimonio e che il suo adulterio si sia quindi consumato in un contesto matrimoniale di grande e preesistente crisi, il giudice non potrà far altro che constatare che la scappatella è stata solamente una mera conseguenza del clima che si respirava a casa vostra e sarà costretto a respingere la vostra richiesta di risarcimento danni.
I due fronti opposti saranno pertanto roventi: da una parte il coniuge che richiede l’addebito della separazione dovrà dimostrare l’esistenza del tradimento e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, dall’altra il presunto fedifrago darà battaglia per smontare le accuse di infedeltà e, qualora fosse impossibile negare l’evidenza, dovrà provare l’anteriorità della crisi matrimoniale rispetto all’accertata scappatella.
Riuscite bene ad intuire quali e quante grottesche oscenità gli avvocati del coniuge adultero siano costretti a sostenere nelle aule dei tribunali per dare credibilità ai propri assistiti.
La tesi che, per mia esperienza, più spesso viene utilizzata dagli avvocati divorzisti, prevede di addossare la responsabilità della crisi coniugale, e conseguente tradimento, all’incapacità del partner tradito di adempiere pienamente ai propri obblighi matrimoniali: in pratica l’adulterio diventa una reazione giustificata da una mancanza, “ti ho tradito perché tu per primo non ti concedevi sessualmente, o perché ti concedevi ma non con sufficiente frequenza o passione, perché eri sempre troppo nervoso o troppo stanco, o semplicemente troppo preso dai figli per dedicarmi le attenzioni che merito”.
E’ evidente che in questi casi il procedimento di separazione diviene una competizione a perdere, una gara a chi riesce a dimostrare in modo più convincente che è stato l’altro il primo a smettere di dare il meglio di sé nel matrimonio, a non avere più cura di noi e dei nostri bisogni.
In tribunale si vuole che un giudice accerti che le nostre meschinità sono giustificate, vogliamo che ci si dica che non è colpa nostra se il nostro matrimonio è finito, che se ci siamo comportati male è perché nostra moglie o nostro marito in qualche modo se l’è cercata: abbiamo talmente tanta paura di convivere con le conseguenze delle nostre azioni, che anche il semplice riconoscere di aver sbagliato ci diventa intollerabile.
Annamaria Toss
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