La giustizia (in)comprensibile: la difesa in caso di omicidio stradale

Agli scritti dell’esame per diventare avvocato, il caso di diritto penale che venni chiamata a risolvere si poteva così riassumere: Tizio assume quantità ingenti di alcol e sostanze stupefacenti e, mettendosi incautamente alla guida della propria auto, cagiona la morte di uno sfortunato passante. Fornisca il candidato la migliore strategia difensiva per il proprio assistito Tizio.
Ricordo che quando lessi la traccia fui contenta e sollevata, perché il parere legale che mi accingevo a redigere era facile.
Nessuna ambiguità giurisprudenziale, nessuna norma difficile da interpretare: il mio esame e Tizio erano salvi, senza nemmeno troppi sforzi argomentativi sarei riuscita a far imputare il mio ipotetico assistito per omicidio colposo ed a fargli scontare una pena da un minimo di 3 ad un massimo di appena 10 anni di reclusione.
Capite bene che se un caso del genere risulta elementare per un neo avvocato, c’è evidentemente qualcosa di profondamente inquietante nella giustizia italiana.
Premesso che non voglio dilungarmi sull’ovvia necessità che il nostro ordinamento preveda il prima possibile un’autonoma figura di reato per omicidio stradale, vorrei invece tentare di chiarificare la logica seguita dalla legge per arrivare all’aberrante risultato di quantificare in pochi anni di carcere il valore delle morti che avvengono per incidente stradale, laddove si accerti che il guidatore sia ubriaco o sotto l’effetto di sostanze psicotrope.
Il nodo della questione, infatti, non si esaurisce nella banale constatazione che il guidatore non voleva investire e uccidere nessuno, che non l’ha fatto apposta, che si è trattato soltanto di un tragico errore causato dall’assunzione di sostanze che hanno inciso sulla sua lucidità.
La logica seguita dalla legge è decisamente più sottile: ciò che distingue giuridicamente l’omicidio volontario dall’omicidio colposo e il motivo per cui nel caso trattato si configura quest’ultimo, consiste nel supporre che il soggetto che si mette alla guida alterato rifiuti la possibilità di provocare la morte di qualcuno.
L’omicidio volontario, infatti, contempla fondamentalmente due ipotesi: nella prima l’assassino desidera e provoca la morte della sua vittima, nella seconda comprende che il proprio comportamento è pericoloso ma si pone in una situazione di indifferenza rispetto alla possibilità di causare l’evento letale, accettando il rischio che la propria condotta lo determini.
Anche l’omicidio colposo prevede essenzialmente due casi: nel primo il soggetto procura la morte per negligenza, imperizia o imprudenza, nel secondo prevede la possibilità che la propria condotta possa teoricamente determinare lesioni mortali ma è certo di poter dominare e controllare le proprie azioni, scongiurando il pericolo astrattamente ipotizzato.
Quindi da un lato volontà o indifferenza nel causare la morte di qualcuno e pena alla reclusione non inferiore a 21 anni, dall’altro, errore di valutazione o fiducia che le proprie capacità eviteranno incidenti, e pena da 3 a 10 anni.
Se risulta evidente che investire qualcuno in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze illegali non possa essere considerato, salvo casi abnormi, realizzazione di un lucido desiderio ma neppure sia ragionevole sminuirlo in semplice errore di valutazione, la domanda a cui sempre più spesso i tribunali italiani sono chiamati a rispondere è se nell’animo dei soggetti che si mettono alla guida in tali condizioni sia ravvisabile indifferenza e spregio della vita umana o fiducia che le cose brutte capitino sempre e solo agli altri.
Ebbene, la nostra giurisprudenza ritiene unanimemente che l’assunzione di bevande alcoliche e sostanze stupefacenti ingenerino una sorta di stato di onnipotenza in grado di provocare la convinzione di non correre rischi di sorta, né con riferimento alla propria sicurezza né a quella degli altri.
Tale stato di euforia determina pertanto la fiducia che le proprie capacità di guida siano ancora intatte e ancora idonee a fronteggiare eventuali insidie stradali: non è indifferenza all’idea di fare del male a qualcuno, ma è convinzione che non succederà.
Pertanto: Tizio si ubriaca e si droga, ma pensa di avere ancora il pieno controllo della situazione. Tizio rifiuta la possibilità di provocare la morte di qualcuno. Tizio si sopravvaluta e il sopravvalutarsi porta diretti all’omicidio colposo.
Con questa semplice equazione, io ho passato l’esame e Tizio starà dentro forse per 3 anni.
Annamaria Toss
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