La recensione: “Vita in famiglia” di Akhil Sharma (Ed.Einaudi Supercoralli)

PREMESSA
Chi è abituato ad avere la pazienza di leggermi sa che io quasi sempre racconto l’inizio delle opere di narrativa che recensisco e solitamente non vado oltre la metà. Mai ne racconto la fine, e neanche questa volta l’ho fatto. Spesso infatti leggo nei commenti “mi hai invogliato a leggere il libro” e chi lo scrive lo fa perché vuole sapere come finisce la vicenda di cui ha iniziato a leggere. C’è da tener presente peraltro che le opere che non vanno lette esclusivamente per la storia che raccontano ma anche per come le situazioni vi vengono descritte e non sempre il libro di narrativa viene letto per il piacere della lettura, a volte c’è anche, a spingerne la lettura, la necessità di apprendere situazioni particolari. Per finire il libro, anche quello di narrativa meno “blasonato”, dovrebbe essere letto non per la vicenda narrata ma per come è nata e per come è scritta. Perché lo stile di uno scrittore è parte fondamentale della narrazione, altrimenti saremmo tutti dei bravi affabulatori.
“Vita in famiglia” è il secondo libro scritto da Akhil Sharma, l’autore che si fece conoscere anche in Italia nel lontano 2001 con il romanzo “Un padre obbediente”.
Nel 2014 ha completato e dato alle stampe quello che è poi ha avuto il riconoscimento dal New York Time e dal New Yorker Magazine come il miglior libro dell’anno, mentre quest’anno ha vinto il premio del “Folio Prize”.
Per anni Sharma, dopo la cruda storia di “Un padre obbediente”, dove si narra di un uomo pedofilo e incestuoso, cardiopatico, viene ucciso per vendetta, lentamente e in modo diabolico dalla figlia che gli spezzerà il cuore propinandogli giorno dopo giorno, volutamente un eccesso di nutrimento a base di cibo ipercalorico che a lui sarebbe vietato, per quattordici anni non aveva dato alle stampe più nulla e si era occupato del suo lavoro presso una banca di investimenti.
Anni vissuti non proprio felicemente per la triste condizione familiare in cui si era trovato fin da bambino e che alla fine ha avuto il coraggio di far conoscere al pubblico in una scrittura che non vuole commuovere ma solo portare a conoscenza quello che può accadere in una famiglia comune malgrado vi si nutrano ben altre speranze.
La storia ha inizio in India e la famiglia è costituita da un padre che, nato e cresciuto nella povertà, chiede un riscatto alla vita e decide di trasferirsi negli Stati Uniti per fare fortuna: lascia perciò momentaneamente una moglie, che appartiene già a una classe superiore, essendo laureata e insegnante, e due figli in età scolare, per raggiungere quello che è comunemente ritenuto dagli esseri meno fortunati economicamente “il famoso sogno americano”. E lo realizza dopo un anno, quando, trovati lavoro e casa nel quartiere dei Queens, New Yok, chiama i suoi familiari a ricongiungersi a lui. Siamo nel 1978, la voce narrante è quella del figlio più piccolo, Ajay, 8 anni, che vive l’esperienza del viaggio con l’eccitazione la curiosità accompagnata da una punta di timore che accomuna ogni bambino di quell’età, il quale va ad affrontare una vita che già sa che sarà completamente diversa perché ne ha visto qualche esempio attraverso la televisione e il cinema, dove la gente è bianca e dove anche le abitudini sono completamente dissimili dalle sue, ma che nello stesso tempo, e proprio per questa diversità, lo incuriosisce e lo eccita, pur provando dispiacere nel lasciare il paese nativo dove si era abituato a una ritualità di vita che dovrà modificare.
Lo stesso scrupolo lo avverte la madre che, però si sente in dovere di assecondare il marito e si auto-convince, credendo anche lei di scappare da una vita di miseria, per affrontarne una’altra dove sembra che la ricchezza non attenda altro che essere elargita a piene mani a chi la va a cercare. L’unico che la pensa come il padre è il figlio maggiore, Birju, ragazzo di bell’aspetto, studioso, dalle idee già chiare in testa, il quale sogna che da grande farà il medico in un luogo dalle strutture evolute. Ed è su di lui che la famiglia conta più che in Ajay, che ha il solo torto di essere il minore e vivere un po’ nell’ombra del fratello di cui è lui stesso ammiratore.
Negli Stati Uniti le cose sembrano avviarsi per il meglio, malgrado i dubbi della donna, che dovrà rinunciare a fare l’insegnante ma accontentarsi del mestiere più modesto di operaia in un grande magazzino. Chi, però, sembra rassicurare tutti è proprio Birju, che ottiene ottimi risultati scolastici fino a guadagnarsi un posto nel prestigioso istituto che poi lo dovrebbe far diventare medico.
La sua vita di indiano, completamente integrato in un Paese i cui abitanti appartengono a un’altra razza, appare vivace, ha una ragazza, vive intensamente il meglio che la sua giovane età gli permette, è il vanto della famiglia, fino al giorno in cui un incidente in piscina fa sì che il futuro roseo, già preordinato e pronto ad accoglierlo a braccia aperte, cambia le carte in tavola: il ragazzo, picchiando la testa sul fondo della piscina, perde i sensi per quattro minuti e la mancanza di ossigeno e il riversamento dell’acqua nei polmoni gli procurano un danno irreversibile al cervello che lo porterà a un coma da dove sembra non doversi più risvegliare. Bloccato in un letto d’ospedale, condurrà vita da vegetale, nutrito artificialmente e assistito principalmente dalla madre perché il personale scarseggia, e la notte, quando neanche la madre potrà essere presente, è abbandonato a se stesso. Tanto che una mattina la donna, quando arriva nella sua camera per assisterlo, lo trova rigirato e aggrappato a una sbarra del letto, lacrimante. Capisce allora che quella struttura non è adeguata ai bisogni del figlio e allora decide con il marito per una clinica alternativa.
E qui comincia il calvario più doloroso per la famiglia, che si deve scontrare contro la mancanza di denaro sufficiente a ottenere di meglio e il riconoscere la propria incapacità di poter fare qualcosa per il figlio più amato. Alla fine, con i pochi risparmi, decidono di acquistare un appartamento e curare il figlio in casa, da soli e con l’aiuto della piccola comunità indiana che vive nel quartiere. Il padre diventa alcolizzato mentre il piccolo Ajay, più che essere seguito nella sua ancora giovane età, è costretto a “dare una mano” e i suoi progressi scolastici non vengono neanche presi in considerazione. Si rifugia nella lettura, diventerà un ammiratore di Hemingway e questo gli servirà a formarlo nella crescita. La donna, invece, sembra essere quella più determinata a credere nella ripresa del figlio e a non cedere alla totale depressione, ma ogni giorno aumentano le liti con il marito che, nonostante un ricovero, non riesce a liberarsi dalla schiavitù dell’alcool.
Se nel romanzo “Un padre obbediente” Akhil Sharma tende con la sua scrittura a suscitare l’odio verso il protagonista, qui non cade nell’errore di suscitare dolore o pietà in chi legge. Il naturalismo che accompagna tutto il romanzo è epurato da quelle situazioni che suscitano facili commozioni, che pure sarebbero potute esserci, dato il tema. (Chi conosce la grande scrittrice indiana Anita Desai, la può ritrovare a tratti in questo romanzo, dove la dolcezza prevale sempre sull’orrore che le situazioni più drammatiche pur potrebbero generare).
Akhil Sharma, che qui assume il nome di Ajay, ci mostra all’inizio l’India reale, quando lui, fino agli otto anni, vi ha vissuto e poi la comunità indiana d’America, come veniva vissuta agli inizi degli anni ottanta, quando i bambini a scuola subivano angherie dai loro compagni “bianchi”, fino ai nostri giorni, dove l’integrazione sembra essere diventata una realtà, e scrivo “sembra” perché certe forme xenofobe sono sempre in agguato un po’ dappertutto, magari sotto forme più sottili e meno marcate, ma in realtà più subdole. Altrimenti non esisterebbero ancora tante comunità di razze diverse.
Lo fa con una scrittura chiara e semplice (l’ottima traduzione è affidata a Anna Nadotti), che avvince in diversi punti chiave.
Ha aspettato anni Sharma a far conoscere il dramma della sua famiglia, ma alla fine ci ha regalato un libro scevro da sentimentalismi ma denso di vero sentimento e il bambino Ajay, quello che, a causa delle circostanze sembrava il più reietto nel romanzo, nonostante lo stato fisico dell’altro figlio più grande, il più debole, il più bistrattato, il meno amato, alla fine si è rivelato colui che ha compiuto l’opera di riscatto che l’ormai vecchio padre, nonostante gli sforzi e la buona volontà, non era riuscito a realizzare.
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Non sapevo fosse uscito un nuovo libro di Akhil Sharma,io lessi “un padre obbediente”…grazie sig Tomeo
Eccellente recensione, sig. Carlo Tomeo. Complimenti per la descrizione del libro che farà, ai lettori, conoscere un po’ dell’anima indiana.
La recensione e’ molto interessante e invoglia alla lettura del libro ed io che leggo molto e diversi generi non mi faro’ mancare neanche questo. grazie all’autore del pezzo
Ottima recensione che incuriosisce il lettore a conoscere più dettagliatamente la storia. Grazie Carlo Tomeo
Bellissima recensione, credo che comprerò presto questo bel libro. Grazie Sig. Tomeo.
Interessante, penso che acquisterò il libro, grazie della recensione
L’ho chiesto in libreria e non l’ho trovato. alla fine l’ho ordinato on line. E’ veramente un gran bel libro e lo consiglio con tutto il cuore. Oltretutto non è né lungo, né pesante da leggere, ma ha una scrittura semplice e coinvolgente!