La tragica passione di Paolo e Francesca

Nel cartellone scaligero di questa stagione, ricco di titoli operistici di rara frequentazione, trova spazio Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, un titolo che torna a Milano dopo le gloriose recite del 1959 in cui giganteggiava Magda Olivero, accanto a Del Monaco e con la florida direzione di Gianandrea Gavazzeni. Francesca da Rimini è l’opera che ha dato fama immortale al suo compositore, fin dalla sua prima apparizione a Torino, nel 1914. Una parte del successo arriso al melodramma è dovuto in parte alla popolarità della vicenda, una sorta di Tristano e Isotta italiano. Il racconto dei due amanti divenne cosi famoso in poco tempo che, vivente Giovanni Malatesta, lo “sciancato”, Dante aveva già scritto il bellissimo V canto dell’Inferno. Il poeta tratta i due amanti in maniera più tenera e solidale rispetto agli altri peccatori del girone infero, ed è curioso notare come in Dante non si trovi traccia della leggenda del matrimonio per procura di Paolo il bello. Il libretto, grondante dannunzianesimo (e non poteva essere altrimenti) è stato adattato da Tito Ricordi dall’omonimo dramma del divino Gabriele. La vicenda è una trama perfetta per un’opera lirica e Zandonai inscena il dramma di D’Annunzio in maniera convincente. Non solo le parole sono sbalzate con una realtà musicale impressionante, ma tutto il trattamento orchestrale è di alto livello; l’impiego di rari strumenti in orchestra conferisce un sapore medievale alla partitura, facendola virare dalla spiccata tinta verista. Non si contano i leitmotiv, ulteriore caratterizzazione dei personaggi. D’Annunzio scrisse Francesca da Rimini per la leggendaria attrice Eleonora Duse: il passo è breve verso il melodramma di Zandonai, che mutuando la stessa pregnante relazione tra parola e musica, richiede un’interprete che sia al tempo stesso attrice navigata e provetta cantante.
Non a caso il personaggio di Francesca è stato appannaggio di soprani dalla spiccata personalità; in tempi recenti, oltre alla Olivero, Leyla Gençer, la Scotto, Kabaivanska e Daniela Dessì. In questa edizione scaligera, la protagonista è sostenuta dal soprano uruguaiano Maria José Siri, voce calda ed estesa che si getta ardimentosa sulle impervie frasi acute. Acerba ancora della sapienza e dello scandaglio del fraseggio, non pregnante ed incisivo, risolve il personaggio prevalentemente in chiave vocale. L’agire scenico è caratterizzato da gesti stereotipati che non fan vibrare il personaggio nella giusto cotè di sensualità. Ad esaltare la prestazione resa dalla protagonista, su cui grava la maggior parte dell’opera, una sfolgorante cornice orchestrale suscitata dal Direttore Fabio Luisi che, con un’ottima direzione porta al calor bianco il magma incandescente della tavolozza sinfonica di Zandonai, sviscerandone la ricchezza sinfonica.
Il resto del cast era formato dall’efficace Gianciotto di Gabriele Viviani, vocalmente “truce” al punto giusto e mai sovraccaricato. Paolo il Bello era il tenore argentino Marcelo Puente che, ad onta di una voce ingolata e acuti appannati, riesce a suo modo a essere un interprete passionale e abbastanza credibile. Meglio fa l’altro tenore, Luciano Ganci, che si fa apprezzare per la sicurezza del registro acuto, offrendo un Malatestino ben caratterizzato nel suo sadismo. Alisa Kolosova era una Samaritana dalla voce piena e sicura, accanto a quella brunita della Smaragdi di Idunnu Munch. Assolvono bene il loro compito l’Ostasio di Costantino Finucci e il Ser Toldo di Matteo Desole. Del quartetto delle compagne di Francesca piace notare Sara Rossini, una fresca Biancofiore. Sempre di rilievo la prestazione del Coro scaligero, istruito da Bruno Casoni. Scenografia originale di Leslie Travers, piena di simboli, che accoppia momenti intensi ad altri più scontati e macchinosi che si innesta sulla regia di David Pountney, poco fantasiosa nel ricorrere a pose e gestualità di un vocabolario ormai sorpassato. Accoglienza festosa da parte di un pubblico non numerosissimo. Recita del 26 aprile. Repliche fino al 13 maggio.
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