Li zite ngalera alla ribalta alla Scala

In meritoria e consolidata frequentazione Il Teatro alla Scala, nell’intento di riportare a conoscenza e agli antichi fasti il nostro ricchissimo patrimonio musicale barocco (ancor negletto e troppo poco famigliare), ha messo in cartellone Li zite ngalera del compositore Leonardo Vinci.
Un nome che suona pressoché sconosciuto anche alla maggior parte dei frequentatori dei teatri d’opera, ma che godette di grandissima fama ai suoi tempi. Napoli, fucina quant’altro mai di creatività e innovazione, agli albori del secolo XVIII sperimenta e crea, in intelligente contrapposizione alla coturnata e aulica opera seria, un nuovo genere, quello della commedia per musica, che offre allo spettatore maggior libertà di aderenza al quotidiano e facilità d’immedesimazione in situazioni reali.
L’utilizzo della lingua vernacola si fonde a un ordito musicale servendosi di un’orchestrazione classica, ma che non disdegna intrecciarsi, parafrasandoli, a motivi più schiettamente popolari. Il dialetto napoletano, assurto già a idioma di sua propria nobiltà nelle rappresentazioni del teatro di prosa, non teme porsi a confronto con l’aulico toscano: la saporita imitazione della spigliatezza del vivere quotidiano (senza pretese di far letteratura) giunge a intensi livelli di credibilità per la capacità dei librettisti di filtrare il popolare senza scadere nel triviale.
Così l’opera in musica (antesignana dell’opera comica e buffa napoletana) crea una vivace caratterizzazione dei personaggi che si servono, oltre al dialetto, anche di motivi e canzoni di strada per raggiungere un equilibrio nella resa del linguaggio e della musica. Li zite ngalera – primo esempio di commedia per musica di cui ci sia pervenuta per intero la musica – fu rappresentata per la prima volta a Napoli, Teatro dei Fiorentini, il 3 gennaio 1722, ottenendo un successo che fece letteralmente impazzire Napoli, a giudicare dalle cronache del tempo.
Dato il felice esito, fu replicata nel 1724, sbarcando poi sulle scene romane del Teatro Capranica nel 1729, con un libretto ridotto però in lingua italiana, o meglio dir, toscana, dallo stesso librettista Bernardo Saddumene. Anche in quest’opera di Vinci la distribuzione vocale segue schematismi cari al teatro d’opera dei primi secoli, ossia voci chiare appannaggio di personaggi giovani e freschi, timbri scuri per quelli maturi e segnati dal tempo che passa. Nota dominante di tutta la composizione è la briosa comicità da commedia degli equivoci che deborda, giocando con arguta leggerezza, nella classica commistione dell’ambiguità di ruoli, a creare un clima di sensualità che serpeggia per tutti e tre gli atti.
Dilagano gli equivoci, alimentati da piccanti e goderecci doppi sensi, non solo di teatrale identità ma anche di esplicita quanto disarmante innocenza del testo (non c’ho quel che vorrebbe… e Ciomma vò no frutto, ch’io no le pozzo dà). Accanto al personaggio di Belluccia, donna abbandonata costretta a celarsi in abiti maschili per recuperare l’amato, troviamo il caricato personaggio di Meneca, vecchia con pruriti d’amore, che ben si presta a esser interpretato da una voce maschile. Espediente antico del teatro comico ma, a differenza di quella dell’opera veneziana seicentesca, qui l’ambiguità sembra di respirarla come dato fondante della vita napoletana, intrisa di sensualità quante altre mai.
Nuova la produzione del Teatro alla Scala, che mette in scena Li zite ngalera per la prima volta nella sua storia, affidandosi alla regia di Leo Muscato, scene di Federica Parolini, costumi di Silvia Aymonino e luci di Alessandro Verazzi. Ne esce uno spettacolo godibile, che ricrea con elementi spezzati e mobili in musicale rincorsa, l’ambiente salernitano in cui si svolge la commedia degli equivoci, con un’anticipazione di quelle turcherie care al ‘700. Il tutto riquadrato da gran cornice dorata.
Il Direttore Andrea Marcon, specialista del barocco, ci travolge sin dall’ouverture (sostituita con quella di Alessandro nell’Indie dello stesso Vinci, perduta l’originale) introducendoci, con nettezza d’intenti, nel vivace e colorato mondo dei personaggi creati da Saddumene. Alla guida dell’Orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici, integrata per l’occasione da elementi del Complesso La Cetra Barockorchester, mostra sicura e scintillante concertazione che si dispiega in caratterizzazione realistica che supera il canto, ricca e profonda nel tratteggio degli stati d’animo – mai astratti e convenzionali – in un vivace e continuo fluire di calda vena melodica.
In palcoscenico la ricca compagnia di canto rende onore alla natura di questa commedia musicale, raggiungendo un’efficace omogeneità di risultato. Carlo Celmino, reso nella sua nobiltà da Francesca Aspromonte, la miglior voce del cast, omogenea e sicura. Chiara Amarù era una garbata e risoluta Belluccia Mariano (Peppariello), accanto a Ciomma Palumbo di Francesca Pia Vitale, educata e corretta. Federico Mariano era Filippo Morace, modesto nella sua nobile aria, Or più non mi fa guerra, florida di colorature, non resa nella sua ricca integrità.
Col’Agnolo di Antonino Siragusa fa valere la sua professionalità, sia come cantante sia come attore. Meneca Vernillo era lo spassoso Alberto Allegrezza di sicura caratterizzazione, spiritoso e mai volgare, dal timbro penetrante. Titta Castagna, il controtenore Filippo Mineccia tende a spingere in alto, rendendo meglio quando affronta arie in tempo lento e dalla corda patetica. Ciccariello era Raffaele Pe, altro controtenore, bravissimo in scena e gustoso attore ma vocalmente non esaltante: la tessitura batte costantemente in una zona non particolarmente gradevole della sua voce, con attacchi sporchi all’aria di sortita, salvo riprendersi nel prosieguo.
I controtenori, nelle Zite, non hanno brillato vocalmente non avendo agilità in cui eccellere, mostrando la limitatezza di colori timbrici. Rapisto Marco di Filippo Romano, felice macchietta, di gusto i suoi sapidi recitativi. Assann Matías Moncada si difende nel momento solistico e Fan Zhou era Na Schiavottella di bel timbro. Calorose accoglienze per tutti, specialmente per la Aspromonte e Marcon.
Al Teatro alla Scala fino al 21 aprile. Recita del 12 aprile.
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