Maria Stuart, la potenza di Schiller

Maria Stuart è dramma romantico, scritto con forte idealismo da Friedrich Schiller nel 1800 – rappresentato per la prima volta a Weimar nello stesso anno- lo è soprattutto nel modo in cui l’autore rende il soggetto, già di se profondamente teatrale. Non teme di scostarsi dalla verità storica, prima fra tutte l’incontro delle due Regine che mai avvenne, alterò le loro età per meglio far risaltare la bellezza della prigioniera. Falso pure l’amore di Leicester (favorito di Elizabeth) per Maria e creata ex novo la figura dell’anglicano Mortimer, passato al cattolicesimo, “stregato” dall’idea di salvare Maria.
A Schiller preme il contrasto sì tra le regine, ma soprattutto tra le due donne: l’antitesi amore – politica è il perno del dramma che si staglia all’orizzonte, ma è fondante nell’animo dei due soggetti principali. Il drammaturgo raffigura il carattere di Maria in maniera molto romantica: oltre alla bellezza esteriore e di un’elevata moralità (a onta di un passato non certo irreprensibile) l’aureola di una morte che la trasfigura. Delinea Elisabetta con tratti più marcati, d’inderogabile diplomatica ipocrisia in campo politico, ma sempre in lotta con se stessa tra dignità morale e amore. Sembra che al regista Davide Livermore il testo schilleriano non basti (nella nuova traduzione di Carlo Sciaccaluga, quasi integrale) poiché per sua ammissione “La musica sarà una delle colonne portanti della nostra storia” sente la necessità di integrarlo con apporti musicali che se da una parte trovano coerenza con l’idea registica, finiscono con l’appesantirlo, spostando spesso l’attenzione e risultandone un ibrido che non è né opera né prosa.
Fisicamente disturbante l’eccessiva amplificazione da discoteca, che fa vibrare l’augusto edificio testé restaurato. Per tacere dell’ormai bieca, quanto ormai invalsa consuetudine dei microfoni in scena (a fronte della perfetta acustica del Donizetti!) che livella le voci e appiattisce colori e sfumature: tutto si ascolta sul tono del mezzo forte e l’urlo lo diviene in massima misura. Conferma che l’artigianato dell’attore, dall’impostazione e della capacità di far correre la voce per la sala, è ormai retaggio del passato.
Il prologo ci mette a parte della scelta di “chi impersonerà chi”, demandata al fato (nelle vesti di un piumatissimo Angelone del destino – Linda Gennari) che lascerà volteggiare, su una delle due protagoniste, la piuma del martirio (che poi è di entrambe le parti) di Maria Stuart, con urla e strider di denti… Maria Stuarda, nella sera della prima, è Elisabetta Pozzi, fasciata da Dolce e Gabbana in vestito rosso fiorato: incalzante sin da subito, sostiene il personaggio con una recitazione rassegnata e dignitosa, per niente dimessa, sicura senza essere superba, lucida nei suoi diritti. L’incontro con Elisabetta (e Leicester a reggere il lanternino…) è al calor bianco, momento in cui la Pozzi disegna una struggente ma mai debole Maria, attenta alle parole, dignitosa nell’umile prostrarsi, ma ferma e non disperata. Drammatico momento, amplificato da una doppia caduta di teli, azzeccato coup de théâtre, a svelare la rivale. La Pozzi si erge allora in tutta la sua dignità calpestata, di regina e di donna, impartendo una grande lezione morale. Elisabetta, fasciata in sberluccicantissime e sontuose mise dai marcati simboli della Croce (sempre firmate dai fantasmagorici D&G), è mostrata da Laura Marinoni leggera e quasi ironica nell’iniziale suo dire comparendo in scena, tanto par, nello svelamento della sua sentire di donna e regina, che si siano invertire le parti, per quegli accenti quasi teneri e commossi, cui si aggiungono tratti di malcelata sensualità, a giustificare le accuse che muoverà poi la Stuart sul suo conto, sulle sue voglie represse o nascoste. Nel duetto con Maria, la Marinoni s’introduce alla rivale con trattenuta vetriolesca ironia, lasciando esplodere la sferzante ferocia e schiacciarla nella conclusione.
L’ambiguità e la volubilità della donna si mostrano nella scena finale, a sbalzare un’anima trascinata da moti contrastanti che si ritroverà sola: stavolta sì, completamente sola. Gaia Aprea, Anna Kennedy, è una nutrice di Maria inizialmente urlata, dai toni sovraccaricati che sa trovare accenti più credibili e affettuosi di fedele attaccamento in seguito; toccante come riesca, pur donna a interpretare e rendere l’animo retto e integerrimo del giusto George Talbot, conte di Shrewsbury il cui finale, intessuto e lacerato da amare considerazioni e dolorosi fraseggi, non lascia indifferenti. A conferma che il teatro è astrazione e sublimazione, evocazione di stati d’animo; l’immagine del personaggio si centra o no, indifferentemente dal sesso o dal colore di voce e anche qui la scelta è efficace, senza necessità di “verità assoluta”. Olivia Manescalchi è il Cavalier Paulet custode e carceriere di Maria, misurato e fermo nelle decisioni dettate da un assolutismo alla patria ma anche segnato da un aplomb che gli detta la giustizia. Interpreta inoltre un sagace e ironico Conte di Aubespine ambasciatore di Francia e l’algido William Davison segretario di stato. Mortimer intenso quello di Linda Gennari, sfruttando l’ambiguità del ruolo e di età, costretto(a) a infangare la sua recitazione con volgarità gratuite. Follemente impulsivo, appassionatamente vivo di viva energia, invasato di fiamma ardente è a lui a sbalzare nel duetto con Leicester, un torrente di potenza sminuita da ridicole pistole… Suo è anche lo stranito e dolente Paggio servitore di Elisabetta. Sax Nicosia era uno stereotipato Robert Dudley conte di Leicester, offrendo il physique du rôle, ma non andando oltre la sufficienza. Stesso giudizio per Giancarlo Judica Cordiglia William Cecil barone di Burleigh un Lord Cancelliere non più che corretto, per riscattarsi nella modesta parte di Melvil, maggiordomo di Maria.
Forse proprio la scarsezza di elementi maschili di spessore interpretativo deve aver indotto Livermore ad affidare le parti a donne, nettamente più credibili e capaci di suscitare emozioni. Chiudeva il quadro, o meglio lo ritmava in incessante continuazione con i suoi tocchi, Giua, chitarra e voce. Una produzione del Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e CTB Centro Teatrale Bresciano. Se l’impianto scenico di Lorenzo Russo Rainaldi, ridotto a un semplice praticabile utilizzato a suscitare i vari ambienti nella fantasia dello spettatore è utile a far risaltare l’unità del discorso schilleriano, legando la segregazione iniziale di Maria alla solitudine finale di Elisabetta, è nel “decor” modernista che raggiunge gli effetti migliori. Musiche di Mario Conte e Giua che hanno rielaborato brani da Purcell (ma quel Remember me dal Dido and Aeneas ne esce completamente privo di pathos…), a Dowland e Davide Rizzio. I restanti costumi erano di Anna Missaglia. Le splendide luci di Aldo Mantovani, i motivati e credibili i movimenti registici concorrono a farne, pur nelle sue ombre, uno spettacolo per molti versi pregnante. Questo è teatro “di parola” e per questo si viene a teatro, per la fascinazione del detto, per cercare nuove sperimentazioni ma non commistione di generi. Alla fine della serata è “la parola” a vincere operando sicuramente un remuement, incidendo nella coscienza dello spettatore. Successo calorosissimo. Al Teatro Donizetti di Bergamo fino al 26 febbraio.
Latest posts by GianFranco Previtali Rosti (see all)
- Ferrara celebra Vivaldi - 20 Marzo 2023
- Gioie e dolori nella vita di Boheme - 16 Marzo 2023
- Andrea Jonasson torna a Milano, con Spettri - 8 Marzo 2023
Irene Antonucci, il nuovo sorriso della tv italiana
Sylvie Lubamba, solidarietà a Salvini
Risotto al burro e timo con tartufo bianco
Cambiare la nostra idea di cambiamento