Moonlight e il canto del cigno

Tra meno di un mese sapremo se Moonlight riceverà almeno uno degli otto Oscar per cui è stato nominato. Un riconoscimento che porterebbe questa pellicola ed il suo creatore, Barry Jenkins, dritti nell’olimpo del cinema. La La Land permettendo, ovviamente.
Quando Moonlight arriverà in Italia, il prossimo 16 Febbraio, ne avrete già sentito parlare talmente tanto che già saprete cosa aspettarvi, ed è un peccato. Ho avuto il piacere (e la fortuna sfacciata) di vederlo prima che venisse acclamato da pubblico e critica di mezzo mondo e di trovarmici davanti senza avere la minima idea di che tipo di film fosse. Affrontarlo in questo modo, a guardia bassa, me ne ha fatto apprezzare ancora di più la peculiarità.
La storia si sviluppa in tre atti che seguono altrettante fasi distinte della vita di un uomo di colore di nome Chiron. Nella prima ha solamente nove anni e vive con la madre Paula (Naomie Harris, che ambisce all’Oscar per attrice non protagonista), un’infermiera con la passione per il crack. E’ un bambino taciturno, obiettivo perfetto del bullismo dei ragazzi più grandi di lui ed alla costante ricerca di una figura paterna, visto che del padre naturale non si sa praticamente nulla. Quando conosce lo spacciatore Jean ( Mahershala Ali, anche lui nominato all’Oscar come attore non protagonista), e la sua compagna Teresa, ci si aggrappa cercando in loro la famiglia che non ha mai avuto. Poco a poco, Chiron inizierà anche a mettere in dubbio la sua sessualità, finendo per chiedere proprio a Teresa cosa sia un faggot (parola inglese equivalente a frocio) e come faccia una persona a capire se lo è.
Nella seconda fase del racconto, troviamo Chiron adolescente. Uno studente come tanti, sebbene più schivo e malinconico degli altri. A scuola, le cose non vanno bene. Il ragazzo deve nascondere la sua omosessualità dagli altri compagni che continuano a molestarlo sia fisicamente (attraverso dei veri e propri pestaggi) che mentalmente. Solo nell’amico Kevin (Jaden Piner) riuscirà a trovare dapprima conforto e, successivamente, un’attrazione fisica vera e propria.
Nella terza ed ultima parte del film, Chion è ormai un uomo. Vive ad Atlanta e spaccia, seguendo l’esempio dell’unica figura paterna che ha avuto. Ha sviluppato una sorta di muro nei confronti del mondo e mostrerà nuovamente quegli occhi di bambino perso nella durezza della propria vita quando, dopo anni, tornerà a Miami per rivedere l’amico Kevin.
Moonlight dovrebbe vincere l’Oscar solo per la quantità di temi spinosi che riesce a trattare contemporaneamente e sempre con la stessa dolcezza. Barry Jenkins, autore e regista, regala una pellicola in cui lo spettatore entra in connessione con i protagonisti fin dalle prime battute. Un film dove non è necessario essere di colore o omosessuali per capire il dramma umano che viene narrato. L’utilizzo della fotografia associato alla lentezza di alcune scene chiave – per esempio quella in cui Jean insegna a nuotare al piccolo Chiron – donano a Moonlight un tocco poetico che è difficile da descrivere con le parole.
Jenkins ha realizzato le scene che vedono protagonista Chiron nelle tre fasi distinte della vita del personaggio in momenti differenti, ed ha imposto ai tre attori che lo hanno interpretato di non entrare mai in contatto tra loro durante le riprese. Grazie a questa accortezza, si ha sempre l’impressione che il protagonista cambi radicalmente a causa degli eventi a cui la fase di vita precedente lo ha sottoposto.
La verità è che Moonlight è un film tristemente perfetto. Racconta la fragilità dell’essere umano, l’importanza della famiglia e come – nonostante tutto – la società americana (e credo che la nostra non sia poi molto differente) sia ancora incapace di aiutare o quantomeno di accettare le persone che, per un motivo o per l’altro, più ne avrebbero bisogno. Moonlight è una specie di canto del cigno, un’ultima carezza sul viso di tutti coloro che si rendono conto di come la loro vita sia stata irrimediabilmente rovinata dai limiti della nostra società. Un racconto che non cade mai nel banale o nello stereotipo e che, allo stesso tempo, non inventa nulla di nuovo.
Se La La Land rappresenta la gioia di fare cinema, Moonlight ne rappresenta l’importanza sociale. Jenkins, attraverso il suo racconto visivo, ci mette davanti al naso una realtà che quando ci troviamo lontano dallo schermo preferiamo ignorare. Vedremo se l’Academy deciderà di rendere il giusto onore a questa grande opera.
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