Netflix, Stranger Things ed i ricordi di bambino

Non ricordo la maggior parte dei film che ho visto durante la mia infanzia, ma ce ne sono un paio che – invece – rimangono bene impressi nella mia mente. Tra questi, l’intramontabile Stand by me (1986), film tratto da un omonimo romanzo di Stephen King, che ha segnato – per altro – l’esordio di un certo River Phoenix. La mescola di avventura e amicizia che caratterizzava quella pellicola me ne fece innamorare a tal punto da segnare irrimediabilmente la mia adolescenza ed alimentare pesantemente quella passione per il cinema che ben presto, e molto prima dell’avvento di Netflix, sarebbe diventata uno dei più grandi amori della mia vita.
Stranger Things – la serie ideata, prodotta e recentemente lanciata in tutto il mondo proprio da Netflix, di cui parliamo quest’oggi – è riuscita, in più di un momento, a rievocare in me quelle stesse sensazioni.
La presenza costante di Should I stay or should I go dei Clash (1982), rigorosamente registrata su cassetta e ascoltata dall’autoradio o da uno stereo, i personaggi, i costumi di scena, perfino la grafica della sigla e la colonna sonora scelte da Matt e Ross Duffer (noti anche come i Duffer brothers), ci suggeriscono che le vicende narrate, si svolgano agli inizi degli anni ottanta.
Si racconta della sparizione del giovane Will (Noah Schnapp), che si scopre non essere ritornato a casa dopo una serata a giocare con i suoi giovani amici “nerd” Dustin (un Gaten Matarazzo senza denti), Lucas (Caleb McLaughlin) e Mike (Finn Wolfhard). È chiaro fin da subito che si tratta di qualcosa di strano, un’ombra, un verso incomprensibile, il ragazzo che cerca di scappare nell’oscurità svanendo senza lasciare alcuna traccia.
Toccherà alla madre Joyce, impersonata da una splendida, meravigliosa ed immortale Winona Ryder, scoprire che il figlio è sparito e, insieme all’altro figlio Jonathan (Charlie Heaton) – non esattamente il ragazzo più popolare del circondario – raccontare alla polizia dell’accaduto, sperando che l’inguardabile sceriffo Jim Hopper (un bravissimo David Harbour) si tolga la paglia dal culo e si metta a cercare il ragazzo.
Naturalmente, i tre amici “superstiti” non staranno con le mani in mano e cercheranno di scoprire dove diavolo sia andato a finire il giovane Will, e proprio durante le loro ricerche incontreranno una ragazzina dallo strano nome che ben presto cambierà irrimediabilmente le loro vite. La piccola Eleven (Undici), ben presto ribattezzata El (l’attrice di origine spagnola Millie Bobby Brown), non è la più loquace delle sue coetanee, ma ha delle doti telecinetiche da lasciare tutti a bocca aperta. Servizi segreti inclusi (i cattivi, volendo essere precisi).
Insomma, nel preparare questo dolce i cuochi di Netflix non hanno dimenticato alcun ingrediente. Quattro giovani amici in cerca d’avventura, una sparizione, un mostro, una bimba telecinetica ed il governo americano che cerca di mettere ordine a questo casino mentre una madre sull’orlo della schizofrenia comunica con una dimensione parallela attraverso le lucine dell’albero di Natale (vedrete, miscredenti).
La ciliegina sulla torta è senza dubbio rappresentata da un ottimo lavoro di casting, in cui certo spicca la Ryder, ma dove non sono riuscito a trovare un solo attore/personaggio che fosse fuori posto (le facce dei ragazzini, poi, sono da Oscar).
La prima stagione di Stranger Things si sviluppa in otto episodi uno più appassionante dell’altro. Per assurdo, sono forse il primo e l’ultimo ad essere i più prevedibili ma non per questo annoiano lo spettatore. Giorni fa mi è stato chiesto da un amico quale fosse il punto debole di questa serie e, piuttosto frettolosamente, ho detto che mi avevano deluso gli effetti speciali, in particolar modo quando veniva coinvolto nella scena il famoso mostro. Un difetto che non si addice ai ragazzi di Netflix. Ripensandoci, a distanza di giorni e dopo una seconda visione, non escludo che quegli effetti siano stati fatti volutamente con una qualità in stile anni ottanta proprio in omaggio alle pellicole di quel periodo da cui, senza dubbio, i fratelli Duffer hanno tratto più di uno spunto.
A mente fredda, invece, il difetto principale di questo prodotto è piuttosto la quantità di materiale disponibile. Diciamoci la verità: quando una serie TV è bella, avere tra le mani meno di 7 ore di contenuti è davvero poco. In Netflix dovrebbero averlo capito, ormai.
Uno dei lati positivi principali, invece, è che la storia è stata strutturata bene ed il suo finale, oltre a non essere troppo banale (rischio piuttosto grande considerando il tipo di narrazione), apre in maniera molto evidente ad una seconda stagione.
Stand by me nasceva e si concludeva con uno dei quattro amici che raccontano il triste destino degli altri tre. In questo caso, Netflix ha l’opportunità (e noi la speranza) di poter raccontare qualche pezzo in più della vita di Will, Dustin, Lucas, Mike e, ovviamente, El. Speriamo davvero che non ci deludano sul più bello. L’adolescente che è in me incrocia già le dita.
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