Perché Sanremo è Sanremo

Non ho fretta di unirmi al dileggio di quanti irridono la tumultuante scia di fedeli che si è accalcata intorno all’imbalsamato corpo di Pio da Pietrelcina. Capisco che per diverse persone, me compreso, l’ostensione di un cadavere in vario modo incerato, particolarmente ardita e blasfema per un credo che profetizza la resurrezione della carne (la resurrezione, non la perpetuazione), non abbia fascino alcuno; capisco anche che l’ossessione del miracolo, di un misterioso favor Dei agito dall’intercessione presso Dio di anime sante dia alla cosa un tono fra l’idolatrico e il superstizioso. Mi convince poco, però, il sopracciglio alzato ed altezzoso di quanti fanno dell’ingenuità una colpa imperdonabile e dei sentimenti popolari una certificazione di stupidità.
Allo stesso modo, se è lecito accostare le cose sacre a quelle profane, trovo ci sia molta vuota alterigia in quanti menano gran vanto di non prestare attenzione al Festival di Sanremo, la più celebre sagra canora del Belpaese. Capisco quanti non hanno vissuto in modo militante le cinque prime serate teletrasmesse dalla città dei fiori; faccio parte del numero, ma non per questo ho omesso di rallegrarmi dell’evidente impaccio di Garko (è sempre consolante pensare di avere qualche punto di vantaggio nei confronti di uno gnocco da paura), di ammirare la statuaria bellezza di Madalina Ghenea o il talento magnifico di Virginia Raffaele. Le canzoni le ho sentite meno, e d’altra parte da gran tempo non sono l’aspetto più importante del Festival, divenuto discograficamnte un evento marginale, divorate dalla fabbrica di divi dei talent e dalla leadership dei nativi digitali nel mercato della musica (o quel che ne rimane).
Come che sia, anche quest’anno abbiamo avuto la rituale polemica sui costi di Sanremo, con tanto di abbaiate alla luna sui cachet generosi di conduttori ed ospiti, condite da un richiamo assai paradossale ai cento euro “in più” che pagheremo nella bolletta della luce per saziare i famelici appetiti di questi venalissimi personaggi. Paradossale perché naturalmente non c’è alcun costo in più; il canone è anzi sceso, e pagarlo con la bolletta elettrica disboscherà la diffusa evasione. Intendiamoci: sono ammissibili tutte le riserve sull’obbligatorietà del canone ed anche su questo nuovo modo di pagarlo. Tuttavia l’aggravio di spesa è solo per gli evasori.
In ogni caso il canone non serve affatto a pagare il Festival di Sanremo, perché la manifestazione ligure è per la Rai un affare (dell’ordine, si stima quest’anno, di cinque o sei milioni di euro). Lo è grazie al calo notevole dei cachet di conduttori e ospiti, e grazie agli ascolti migliorati, che hanno determinato un aumento degli introiti pubblicitari. Certo, invece dell’Orchestra del Festival di Sanremo diretta dal maestro Vessicchio, si poteva chiamare l’orchestrina di liscio Amore in Balera con Iside Panzavolta al canto e Radames Pistocchi alla fisarmonica; le scenografie potevano senz’altro essere realizzate in polistirolo espanso; la conduzione affidata a Suor Paola, la celebre tifosa biancazzurra; mentre come ospiti si sarebbe potuto puntare su Mimmo Locasciulli e Mario e Pippo Santonastaso. Ma forse il saldo non sarebbe stato lo stesso.
Ancora più esilaranti le polemiche sul “Sanremo politico” e le proteste per i nastri arcobaleno esibiti da alcuni cantanti. “Propaganda per le unioni gay” sibilavano velenosi alcuni, evidentemente convinti che Carlo Giovanardi, Domenico Scillipoti e gli altri inquilini di Palazzo Madama pendano dalle labbra di Noemi o da quelle di Patty Pravo (apparsa, per la verità, piuttosto simile al San Pio citato all’inizio).
Al di là del merito, ad essere ridicola è in sé l’idea di Sanremo come luogo “apolitico” o dalla politica separato. Nulla di più immaginario. Per tacere di “Chiamami ancora amore”, che cantata nel 2011 da Roberto Vecchioni dichiarò chiusa l’età berlusconiana prima che lo facessero Napolitano, Monti e le urne, basta ricordare il “Chi non lavora non fa l’amore” con cui Adriano Celentano nel 1970 interpretò la reazione conservatrice e qualunquista all’autunno caldo, o anche, per andare ai gloriosi miti delle origini, la bianca colomba di Nilla Pizzi che volava a San Giusto, verso Trieste irredenta nel 1952, un anno prima delle divisioni di Giuseppe Pella.
Perché la canzone, tanto più se popolare, inconsistente ed intrattenitiva, è materia intimamente politica, fin da quando le cavatine di Rossini e le cabalette di Donizetti e Verdi narravano l’Italia nuova. Non solo perché le canzoni descrivono la nostra vita, che profondamente ed intensamente politica, lo sappiano i teorici del riflusso; ma anche perché, come già scriveva Omero nel Libro Ottavo del poema di Ulisse, gli eventi esistono per essere cantati. Siamo esseri di sogno e d’ombra: il luogo cruciale della nostra esistenza non è nel tristo recinto degli oggetti, nelle cure meschine che dividono l’anima, che non sa più dare un grido (cit.). Esistiamo davvero solo quando la musica viene ad abitare in noi. E pazienza se a volte quella presentata a Sanremo fa davvero schifo.
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