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Home›A confronto›Editoriali e commenti›PUGLIESI A MILANO di Giuseppe Selvaggi /Milano e il mare dentro

PUGLIESI A MILANO di Giuseppe Selvaggi /Milano e il mare dentro

By Redazione
21 Giugno 2015
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In base agli ultimi dati, su un milione e 300 mila abitanti, oltre 180 mila residenti a Milano sono pugliesi. Abbiamo chiesto a Giuseppe Selvaggi, responsabile Eventi, dell’Associazione Regionale Pugliesi, di tenere una rubrica dedicata a loro.

Giuseppe Selvaggi

Giuseppe Selvaggi

di GIUSEPPE SELVAGGI

A chi  scrive  non restano che le  parole per sovvertire la realtà. Il foglio di carta è il luogo del rifugio, è lo spazio limitato in cui recintare la condizione puramente spirituale dell’anima persa nel sogno, il viaggio fantastico  per sfuggire a una quotidianità che non soddisfa.

Giorno dopo giorno la città metropolitana si apre e mi regala nuove storie, situazioni inaspettate, cortocircuiti.

Come ogni mattina, nell’androne della fermata della metropolitana mi accoglie la voce dell’immancabile mendicante di professione che come un disco rotto mi augura con fastidioso tono di voce basso, non modulare e dal ritmo molto lento: buona fortuna, buon lavoro e un’infinità di altri auspici per 50 centesimi di riconoscenza scaramantica; la prima tassa della giornata.

Il clic della macchinetta obliteratrice per accedere ai treni della metropolitana mi rimanda all’immagine del colpo di pistola ai blocchi di partenza che dà il via a una corsa a ostacoli o peggio il gong di un ring di pugilato.

E’ da qui che inizia la mia giornata di milanese. Quando mi chiedono se val la pena venire a vivere a Milano, cerco di non rispondere, vivere in un altro paese allarga gli orizzonti, mette alla prova la propria capacità di adattamento e insegna le differenze … tutto vero basta salire su un treno della metropolitana e incontri un mondo.

Si diventa “ibridi”. Vivo il viaggio come una sorta di limbo, la cosa non è necessariamente negativa, anzi, se sai gestirla bene, puoi prendere il meglio delle giornata, quello in cui non devi dar conto a nessuno, quasi mai uno scambio di sguardi o di battute che non vadano oltre il banale o la rituale domanda “scende alla prossima?”.

Oggi cercherò di vivere alla giornata senza voler risolvere i problemi della mia vita tutti in una volta, sto pian piano imparando, ma, mi illudo di imparare la regola, non imparerò mai.

Sono passati diversi anni, la sensazione resta identica a quella che devono provare i migranti al loro sbarco …. l’estraneità a qualcosa di cercato, inseguito, immaginato.

Milano al mio arrivo mi era apparsa come l’avanguardia del benessere – con i suoi alberghi, le strade della moda, la metropolitana e poi tanta, tanta umanità che si sfiora ignorandosi.

L’avevo immaginata come frontiera del progresso, la ritrovo  isolata dal mondo, con lo sguardo nostalgico rivolto al passato e una patina fresca di vernice che è incrostata di salsedine, visione questa innaturale vista la distanza dal mare.

Il mare, quale enorme assenza in questa città su cui il sole, forse in disaccordo con i fatti umani, nega la sua presenza e si cela dietro a un denso e umido strato grigio, uniforme e piatto, come a voler negare speranze di luce.

A volte per raggiungere uno stato di estraneazione dal presente  mi è sufficiente fermarmi qualche minuto ad ascoltare i suoni prodotti da ciò che mi circonda. Sono molteplici i fenomeni naturali capaci di indurre uno stato di calma e pace nella nostra mente e nel nostro corpo, basti pensare al vento che pur prigioniero gira tra i palazzoni di una periferia dove meno presente è la confusione acustica e con un qualche sforzo è immaginabile di poter riconvertire il rumore in suono.

Attingiamo allora alle registrazioni acustiche che custodiamo nella mente e che riadattiamo a momenti e circostanze credendo di sentire qualcosa che ci portiamo dentro, come il rumore del mare.

Strano a dirsi, sarà capitato a molti di udire il rumore del mare appoggiando una conchiglia all’orecchio, si tratta di un’illusione acustica: la conchiglia contiene al suo interno dell’aria; ogni onda sonora proveniente dall’esterno e che passa vicino alla conchiglia, fa vibrare l’aria contenuta all’interno di essa, dando maggiore intensità a rumori altrimenti poco udibili.

I rumori esterni e la stessa aria fluttuano e le pareti della conchiglia fungono da cassa di risonanza, ecco perché ciò che si sente mettendola vicino all’orecchio assomiglia alla risacca del mare. Ma, io non ho alcuna conchiglia, ho solo la voglia e il desiderio di sentire il rumore del mare.

Ho amato il mare, gioia dei miei svaghi giovanili quando mi facevo trasportare dalle onde e sparivo alla vista dei miei amici coperto dalla sua schiuma, mi fidavo del mare e mi sentivo parte di esso.  Tutto emerge dall’immaginazione come corrispettivo visionario e simbolico della propria interiorità sofferta, l’uomo si scruta e intravede nel mare lo specchio abissale in cui contemplare la propria anima e si confronta con l’idea del naufragio come metafora della sua esistenza.

E il bisogno dell’altrove si configura nella propria ricerca come lo spazio aperto del mare, metafora della libertà. Si scorge un pericolo in questa fuga momentanea, il mare sognato, immaginato, diviene referente inquietante e specchio dell’animo ansioso e instancabilmente coinvolto nel quotidiano bisogno di vivere ordinariamente e l’esigenza di fuga da una realtà che non piace.

Preso dai miei vagheggiamenti non mi accorgo che procedo camminando sulla strada, una “provvidente” pozzanghera presa di proposito da un’automobilista dispettoso mi schizza accompagnando il gesto voluto allo sfottò “sveglia!”.  Ritorno alla realtà …. non è acqua di mare. è fango cittadino.

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