Romèo et Juliette, eterno è l’amore

Trasportare una pièce shakespeariana in musica è sempre stato un arduo tentativo, anche per i compositori più grandi: la trama che sta alla base dei lavori di Shakespeare è molto attraente, spesso eclatante per le tragedie, quindi teoricamente ideale per farne un soggetto operistico.
L’ardua difficoltà nasce quando si deve rendere lo spirito del bardo, oltre alla bellezza del linguaggio, la sottotrama riccamente elaborata ma, ancor più, per la sottigliezza e la complessità emotiva.
L’impossibilità di rendere quest’universo di fattori, peculiare cifra della creazione shakespeariana, ha premiato quei compositori, tra cui Charles Gounod, che si sono limitati a prendere dal drammaturgo inglese gli elementi essenziali della vicenda, rivestendoli di quel che sembrava loro il carattere essenziale del libretto.
Gounod scrisse Roméo et Juliette dopo dodici anni dal Faust, rendendo il compositore francese uno dei più famosi operisti al mondo. Fin da subito l’opera ebbe un grande successo di pubblico quanto prediletta dai soprani lirico-coloratura (Adelina Patti ne fece un suo cavallo di battaglia) e in misura minore dai tenori, anche se oggi non compare più nei cartelloni operistici con la stessa frequenza di Faust. L’opera è esatto specchio del gusto di un’epoca: Gounod gran maestro nel costruire e perfezione momenti amorosi, crea linee di supremo lirismo e melodia.
Una partitura quindi essenzialmente per tenore e soprano, con il resto dei personaggi ridotti a stereotipi operistici; fornisce sovrana musica a Romeo e Giulietta, la cui caratterizzazione non interferire con il flusso della melodia, che assume qualità fluttuanti e trasfigurate, risultando straordinariamente coinvolgente. Impensabile quindi per le convenzioni operistiche (riandando alla tragedia originale, in cui i due innamorati non fronteggiano insieme l’istante supremo), che i due amanti non trovino insieme la morte, dopo un duetto, con buona pace di Shakespeare…
Sul palcoscenico del Piermarini Roméo et Juliette di Gounod, torna dopo nove anni, stagione 2010/11 e prima ancora l’opera si era ascoltata a Milano nel 1934, protagonisti Beniamino Gigli e Mafalda Favero, che la cantarono nella versione ritmica italiana. Il Teatro alla Scala rimette in scena l’allestimento creato per il Metropolitan di New York, ripreso dal Festival di Salisburgo da Bartlett Sher, scene di Michael Yeargan, costumi di Catherine Zuber, luci Jennifer Tipton e movimenti coreografici di Gianluca Schiavoni.
Tipico esempio di spettacolo “festivaliero” dove non c’è molto da pensare e cui si chiede una superficiale piacevolezza visiva: ecco allora comparire, in un eterno carnevale a effetto, fumogeni e fuochi di coriandoli dorati, pupazzi issati su bastoni in una sarabanda di costumi che andava dal trito settecento buono-per-ogni-occasione al popolano di Fragonard, con inserti neo-trecenteschi e costumi un po’ fantascientifici della mascherata.
A costipare spesso la scena fissa di Michael Yeargan, imponente palazzo dominante una piazza veronese, buona per tutti i luoghi della vicenda. Regia inconsistente di Bartlett Sher (ripresa da Dan Rigazzi) che non è riuscita a spingersi oltre la più ovvia gestualità, limitandosi a gestire lo svolgimento senza evocare il clima misterioso e romantico.
La Juliette di Diana Damrau suona inizialmente un po’ vuota, non spettacolare nel pezzo di bravura Je veux vivre, che rende ad ogni modo in maniera spumeggiante. Certo lo smalto della voce si è appannato e le colorature non han più la brillantezza e la precisione d’antan ma resta sempre un’interprete partecipe e convincente. Trova accenti tragici alla rivelazione di Romeo, e poi lirici e toccanti nel finale, facendo di Giulietta un personaggio vitale, volitivo e per niente rassegnato al destino.
Vittorio Grigolo, al netto di alcuni atteggiamenti di tenorismo, è un Roméo caratterizzato da piani, pianissimi e partecipate finezze interpretative. La fonazione francese giova alla sua voce, anche se gli acuti sono sempre un po’ aperti e schiacciati, mai ben espansi e squillanti. Ottimo interprete, pone sulle labbra del suo personaggio lirismo e giusta enfasi, costruendo un convincente e maturato Romeo, oltre a sfruttare un phisique du role da attore, arrampicandosi su e giù da colonne e balconi.
Protagonisti entrambi credibili, ben in sintonia nel fraseggiare e nei duetti d’amore, convincenti, giocano a farne due personaggi vivi, ironici e allegri di gioventù e passione amorosa.
Buona voce presta Nicolas Testé a Frère Laurent, non profondissima ma che “corre” e gli acuti sono efficaci. Tybalt era Ruzil Gatin, voce squillante e ben proiettata mentre il Mercutio di Mattia Oliveri, consumato teatrante, risulta vocalmente un po’ caricato.
Il Capulet di Frédéric Caton inizialmente accettabile, spinge nell’aria iniziale, mostrando poi la corda di una voce intubata. Un’esuberante Marina Viotti da corpo a un lirico Stéphano, Gertrude precisa e puntuale, ma anche povera di smalto e di modesto volume di Sara Mingardo.
Gradevole Paris di Edwin Fardini mentre Le Duc dalla bella voce di Jean-Vincent Blot difetta un perfetto immascheramento degli acuti; corretti infine Benvolio Paolo Nevi e Gregorio Paul Grant, solisti dell’Accademia Teatro alla Scala.
Sul podio, debuttante in un’opera alla Scala, il Maestro Lorenzo Viotti, in una bella prova teatrale: gran piglio, ottima intesa col palcoscenico di cui sente e sottolinea fraseggi e respiri, dominando la debordante trama sonora di Gounod, senza mai un momento di stasi.
Elegante e teneramente partecipe negli slanci amorosi, sapeva marcare con viva decisione quelli descrittivi. Successo festoso, con grande entusiasmo per Diana Damrau e Vittorio Grigolo, ovazioni per Viotti.
Recita del 13 febbraio.
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