Tin Star, un nichilista elogio della follia

Gli ultimi secondi della terza stagione di “Tin Star” salvano la serie con Tim Roth splendido protagonista, dalla bocciatura senza appello. Eppure, malgrado tutto il male che se ne possa dire, “Tin Star” è un telefilm divertente, da seguire tutto d’un fiato che, dopo una prima stagione partita benissimo e proseguita con qualche dubbio, nella seconda si era pericolosamente afflosciata per poi ritrovare ritmo e suspence nella terza.
Una serie folle e nichilista
“Tin Star” è una serie sciaguratamente folle e priva di senso, sceneggiata da un autore in evidente stato di alterazione psichica (non eravamo presenti per capire quali fossero le droghe utilizzate). La si potrebbe definire una via di mezzo fra una serie pulp e una fantasy-horror, con alcune vene di humour forzato che, in certi passaggi, potrebbero far tornare alla memoria “Fargo”, ma che di quest’ultima non hanno la stessa potenza e credibilità. Qui si trovano dipinti dei cattivi ‘cattivissimi’ di cui però si conosce molto poco, senza antefatti né vissuto. Lo stesso personaggio interpretato da Roth, Jack Devlin (che poi si scoprirà essere tale Jack Worth), comincia il trittico di stagioni come padre di una famiglia felice e le termina come un assassino spietato, che peraltro coinvolge moglie e figlia nella propria follia omicida e nichilista.
Tra derive ‘fantasy’ e orrori ‘pulp’
In “Tin Star” sfugge il senso d’insieme della storia raccontata, sebbene, soprattutto nella terza stagione, l’ansia omicida che pervade tutti (e si sottolinea ‘tutti’) i protagonisti prevale sulla trama, lasciandosi sopraffare da paradossi che, non si capisce nemmeno quanto, siano voluti. E così si mischiano matrimoni con il sorriso a omicidi di preti sfigurati, gente che viene buttata casualmente dalla finestra a simpatiche bevute nei pub di Liverpool, famiglie distrutte senza pietà ne remora alcuna e trenini carichi di bimbi che calano nel pieno di festini che riempiono case dove scorrono a fiumi alcol e droga.
Terza stagione, il ‘sound’ di Liverpool
In tutto ciò, il finale, totalmente privo di logica, dona perlomeno coerenza all’incoerenza e al teatrino dell’assurdo costruito in tutte le puntate precedenti. Applausi, ovviamente, per Tim Roth, in versione ‘hooligan’ della vita, affiancato dalla ‘famiglia’, composta da Genevieve O’Reilly e Abigail Lawrie, per un trittico tutto britannico che, soprattutto nella terza serie, ambientata nella Merseyside (con tanto di colonna sonora adeguata, da Gerry and the Pacemakers a Echo and the Bunnymen), rende credibile almeno l’ambiente circostante, una Liverpool persa fra violenza e povertà.
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